La letteratura della Nuova Zelanda, che comprende anche opere in inglese scritte da maori, è improntata a temi caratteristicamente coloniali: isolamento, individualismo, problemi di identità culturale.
Emersa solo negli anni ’20 e ’30 del nostro secolo alla consapevolezza della propria originalità, contava già allora una delle più raffinate scrittrici di lingua inglese, Katherine Mansfield (1888-1923), attiva però nel vecchio continente, nelle cui pagine la Nuova Zelanda assume l’aspetto di un “paradiso perduto”. Da ricordare Robin Hyde (1906-39), giornalista e poetessa oltre che autrice di romanzi; il narratore Dan Davin (1913-90) che, pur vivendo a Oxford, ha conservato tematiche della sua terra; il romanziere Frank Sargeson (1903-82) e la scrittrice Janet Frame (1924-2004).
Da sottolineare che la lingua inglese, diffusa nel mondo attraverso la formazione dell’impero coloniale britannico, viene oggi usata in vaste aree anche dopo il conseguimento dell’indipendenza politica. Là dove la prevalenza dell’emigrazione europea aveva distrutto o emarginato la popolazione aborigena, è rimasta la lingua nazionale come in Canada, Australia, Nuova Zelanda. Questi paesi hanno subìto il trapianto di una tradizione letteraria britannica che però la climatizzazione culturale e gli innesti hanno trasformato in letterature nazionali, differenziate per temi, ispirazione e forme.
Nel Novecento si precisano le linee di influenza interne dei due massimi poeti neozelandesi, lo sperimentatore ‘modernista’ Allen Curnow e il profeta ‘romantico’ James K. Baxter. Innovativo da un punto di vista linguistico e ritmico appare il contributo della poesia maori, con l’intensa lezione di Hone Tuwhare, che riprende nel grigio contesto dell’urbanizzazione proletaria le antiche forme del tangi (lamento funebre); non meno interessante il lavoro sulla memoria poetica di Keri Hulme, autrice anche di romanzi e racconti. Tra gli autori neozelandesi del Novecento ricordiamo Margaret Mahy (1936-2012) scrittrice di libri per bambini e vincitrice di numerosi premi tra cui il premio Andersen e la Carnegie Medal.
La divisione netta tra realismo locale e postmodernismo americano si evidenzia nei racconti di Owen Marshall (1941) e si accentua con l’interesse per l’horror e la detective story nell’opera di Maurice Gee (The crime story, 1994). Le forme del conflitto interculturale vengono riprese in chiave tragicomica da Maurice Shadbolt che incentra i suoi romanzi sulle guerre ottocentesche tra coloni pakeha («europei») e Maori. Anche C.K. Stead ha scritto un romanzo storico sulla spoliazione delle terre maori, The singing Whakapapa (1994). Sui rapporti interrazziali si concentra Sue McCauley. Divenuti fin dalla fine degli anni 1970 soggetti della loro stessa narrazione, e non più solo oggetto di osservazione da parte del narratore pakeha, gli scrittori maori contribuiscono a definire il quadro culturale e letterario, sia attraverso una ripresa della tradizione in lingua maori, essenzialmente orale, sacrale, performativa, quasi estinta attorno agli anni 1920 per l’imposizione dell’inglese, sia restituendo visibilità a una letteratura maori in lingua inglese, rimasta a lungo sommersa e oggi sempre più consapevole di muoversi in un contesto specificatamente polinesiano. La vivace ricezione dell’opera di Jacqueline Cecilia Strum e di Donna Awatere, e il successo del duro romanzo di Alan Duff Once were warriors (1990), che costituisce una trilogia con What becomes of the broken hearted? (1996) e Jake’s long shadow (2002), rivelano a partire dall’inizio degli anni ‘90 una tradizione politico-letteraria ben più sicura di sé, rispetto alle prime voci emerse negli anni ‘70 dalla forzata immigrazione in città, con i racconti e i romanzi brevi di Witi Ihimaera e di Patricia Grace. Nella letteratura più recente ricordiamo Kate de Goldi, autrice per bambini, Catherine Robertson, scrittrice e libraia, Paul Cleave, autore di narrativa poliziesca, la poetessa e saggista Anna Jackson.