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La scoperta del problema meridionale non solo come episodio di una condizione arcaica, intollerabile nella nostra società, ma anche come teatro di una straordinaria civiltà contadina.
«Eboli – dicono i lucani tra cui Levi fu mandato al confino dal fascismo – e l'ultimo paese di cristiani. Cristiano è uguale a uomo. Nei paesi successivi, i nostri, non si vive da cristiani, ma da animali.» Dice Italo Calvino in uno dei due testi che introducono questo volume: «La peculiarità di Carlo Levi sta in questo: che egli è il testimone della presenza di un altro tempo all'interno del nostro tempo, è l'ambasciatore d'un altro mondo all'interno del nostro mondo. Possiamo definire questo mondo il mondo che vive fuori della nostra storia di fronte al mondo che vive nella storia. Naturalmente questa è una definizione esterna, è, diciamo, la situazione di partenza dell'opera di Carlo Levi: il protagonista di Cristo si è fermato a Eboli è un uomo impegnato nella storia che viene a trovarsi nel cuore di un Sud stregonesco, magico, e vede che quelle che erano per lui le ragioni in gioco qui non valgono più, sono in gioco altre ragioni, altre opposizioni nello stesso tempo più complesse e più elementari».
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Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi è un racconto dell'esperienza dell'autore come esiliato in Lucania durante il fascismo. Con uno stile lucido e riflessivo, descrive la povertà e l'isolamento delle popolazioni meridionali, simbolizzate dalla metafora di un Cristo che non arriva oltre Eboli. Il libro è una critica sociale profonda, che unisce la testimonianza personale alla denuncia delle disuguaglianze del sud Italia.
ho trovato questo libro per caso in una libreria a casa di mia nonna e ho deciso di leggerlo sotto suo consiglio, inutile dire che è stato amore a prima pagina. la prima cosa che ho notato leggendo questa specie di diario di bordo è stata lo stile calmo ma ricco di Carlo Levi: mi è sembrato sin da subito il racconto di un nonno ai nipoti, quell'attenzione ai dettagli e quel linguaggio calmo e sereno di chi ha accumulato quella saggezza che un nonno potrebbe vantare. La storia è triste di suo, un artista confinato in una landa desolata che altro non può fare se non il medico per i poveri contadini del pese; ma la scelta delle parole, l'attenzione ai dettagli che di solito vengono trascurati perché troppo crudi, rendono il racconto decisamente malinconico e quasi cupo. Essendo poi io lucana, ho visto la mia realtà quotidiana da un nuovo punto di vista più oggettivo. Che dire, questo libro mi ha cambiato: ho acquisito una consapevolezza sulla mia terra, che ormai credevo morta.
Racconta gli anni da confinato dell' autore in un paesino della Lucania, Gagliano. Lì Carlo Levi, borghese del Nord, conosce da vicino la questione meridionale. Lo Stato (fascista) non è che un entità astratta a cui non importa nulla se i contadini muoiono come mosche di malaria, se le tasse sono esorbitanti, se la cultura del grano, imposta dall'amministrazione centrale, non attecchisce in quelle lande di roccia e argilla. È una Stato indifferente ai problemi dei suoi cittadini. Uno Stato che non si occupa del benessere dei suoi contadini. È lo Stato di Roma. No il "loro Stato". La denuncia delle condizioni di miseria e vessazioni, e di arretratezza del Mezzogiorno nasce da un'osservazione diretta della vita rurale. In cui la morte e la malaria ne fanno da padrona. In cui la stregoneria e gli amuleti sopperiscono alla mancanza di farmaci. Levi ci presenta quel mondo attraverso le persone che lui incontra. Don Luigino, il podestà ipocondriaco. Il sarto che maledice tutti i giorni il 1929 e la sua decisione di lasciare l'America e ritornare in paese, abbindolato dalla propaganda fascista. Il barbiere cavadenti. Il dott. Milillo, troppo vecchio per esercitare, e il dott. Gibilisco, troppo avido per fare il medico. E poi le contadine-streghe, il sanaporcelle, il becchino-banditore, i bambini, il cane Barone e le capre. Un libro che è memoria storica di un'Italia passata.
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