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Ma è sempre così, siamo quello che siamo non per le persone che abbiamo incontrato ma per quelle che abbiamo lasciato.
«La qualità essenziale del romanzo è nell'avere illuminato con disperata chiarezza il rapporto fra un uomo e una città, cioè tra la folla e la solitudine» - Natalia Ginzburg
«È ancora possibile scovare dei tesori: è il caso de L'ultima estate in città. Per questo libro Gianfranco Calligarich passerà alla storia» - Le Figaro
«Scoperto da Natalia Ginzburg e mai tradotto prima in inglese, L'ultima estate in città è un classico dimenticato della letteratura italiana, dello stesso livello de Il grande Gatsby o de Il giovane Holden. La sua recente ripubblicazione ha portato con sé il confronto con scrittore del calibro di Capote, Hemingway, Franzen e Moravia» - dalla quarta di copertina dell'edizione americana
Approdato a Roma da Milano, Leo Gazzarra è un trentenne alla ricerca di se stesso, in fuga dal grigiore del nord e dalla mancanza di una prospettiva esistenziale. Colto e amanti dei libri, si accontenta di lavori saltuari e malpagati, girovaga per i caffè della città trovando nell’alcol un rifugio. Le sue relazioni sono quelle effimere e superficiali dei salotti, fatta eccezione per un amico sincero e per la ragazza fragile e inquieta che gli cambierà la vita. Dopo nemmeno mezza giornata di lavoro abbandona il posto sicuro e ben pagato in Rai: è la resa a un dolore che si placa e si riaccende negli incontri con gli affetti più veri. Intorno, una Roma falsamente accogliente, indifferente alle sorti di chi ci vive. Un romanzo feroce e amaro, che indaga il rapporto disincantato tra un uomo e la sua città e la contraddizione che lo condanna a sentirsi parte di un tutto e insieme inesorabilmente solo.Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Ho il rammarico di aver scoperto Calligarich troppo tardi e per puro caso, apprendendo che lui moriva pochi giorni dopo il riconoscimento da parte del Presidente della Repubblica di un vitalizio a causa delle precarie condizioni economiche. E così vorrei rendere il giusto merito ad un autore che forse ha raccolto meno di quanto abbia seminato. Il romanzo ha un sapore autobiografico e racconta di Leo Gazzarra, giovane scapigliato che da Milano arriva a Roma in cerca del mare e, si spera, di maggior fortuna. Roma è una città indifferente, che non accoglie ma fagocita: “con lei niente mezze misure, o un grande amore o ve ne dovete andare perché questo la dolce belva richiede, essere amata. Così anche voi giorno dopo giorno, aspettando, diverrete parte di essa. Così anche voi nutrirete la città. Finché un giorno di sole, fiutando il vento che viene dal mare e guardando il cielo, scoprirete che non c’è più niente da aspettare”. Leo trascina le giornate sul filo della instabilità lavorativa ed affettiva, alternando momenti di euforia ad altri di profonda autocommiserazione. In libro sviluppa un lessico tutto particolare, fatto di frequenti freddure e termini singolari: così sfinocchiato sta per sfigato, e il rimontante è l’ennesimo bicchiere di alcol, e ancora alzare le vele sta ad intendere la voglia e la necessità di andare via. Pur nella grandezza di Roma, Leo vive un senso di isolamento e di inadeguatezza, ed è nel traffico del lungotevere che matura la decisione: “di colpo seppi che era arrivato il momento di alzare le vele”. Leo fiuta il vento e guarda il cielo, finalmente trova il mare: “mi accorsi che era il posto più bello che avessi mai visto e che non stavo andando in nessun posto, che non c’era nessun posto dove potessi andare se non qui”. Libro straordinario, testimonianza di quella insofferenza dei tempi moderni in cui ci sentiamo figli del mondo ma, in definitiva, di nessun luogo.
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