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Anno edizione: 2023
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Attraverso gli occhi di una "comparsa" dei grandi eventi storici, Vassalli, con il suo stile asciutto, narra un viaggio alla riscoperta delle origini del mondo romano ed etrusco. Monito a ricordare che la Storia è ciò che i vincitori hanno scelto di tramandare.
“La scrittura: è lei la protagonista della storia che sto raccontando. Il popolo dei Rasna, che io ho conosciuto prima che i suoi sacerdoti piantassero l’ultimo chiodo nel muro di Northia, credeva che gli uomini dovessero esistere nel tempo come gli insetti esistono nella notte, inebriandosi della loro vita finché gli è possibile, e poi tornando a scomparire nel buio. Aveva scoperto, in alternativa alla scrittura, un modo di rivivere il passato, e forse anche di anticipare il futuro, muovendosi lungo la catena di eventi che costituiscono la storia del mondo, come sui gradini di una scalinata infinita, in un senso e nell’altro; ma quel modo non aggiunge e non toglie niente ai singoli uomini, e non modifica le loro storie. La scrittura, invece, può durare (e di solito effettivamente dura) ben più di chi se ne serve; e ci può dare quell’illusione di immortalità che più di ogni altra illusione passata o presente ha abbagliato gli uomini della mia epoca. Virgilio, Orazio, Properzio, Agrippa, Mecenate e lo stesso Augusto, si sono riscaldati alla luce di quell’illusione, e hanno creduto di poter vivere oltre la morte fino a diventare immortali, rispecchiandosi nella loro scrittura o in quella degli altri…” Ogni volta che leggo un romanzo di Sebastiano Vassalli mi stupisco perché riesce a non essere ripetitivo, pur rientrando sempre nell’ambito storico, che invece delinea una ripetitività di fatti e di comportamenti che induce a pensare che l’uomo sia rimasto sostanzialmente immutato nel tempo, con le sue passioni, le sue pulsioni, con una natura congenita che si ritrova sia in epoca romana che in quella attuale. Le tematiche sono le più svariate, ma imperniate su un attento lavoro di ricerca che di fatto riporta alla luce un’epoca attraverso una creatività che nulla toglie e nulla aggiunge a quella che era, oppure è, la realtà. E’ questo il caso di Un infinito numero, che racconta di un viaggio compiuto in Etruria in età augustea da Mecenate, Virgilio e Timodemo, quest’ultimo schiavo acquistato sul mercato di Napoli dal grande poeta latino e liberato dopo pochi anni. Ed è appunto questo ex schiavo, materializzatosi fra i personaggi ideati da Vassalli, che riveste la parte dell’io narrante, in un ideale congiunzione temporale fra quella lontana epoca e l’attuale. Ma perché questo viaggio? Qual è il suo fine? Virgilio, tramite Mecenate, ha già avuto l’incarico da Augusto di scrivere un poema sulle origini di Roma, un’opera che dovrà restare eterna, per glorificare la sua potenza e anche l’attuale dominatore, quell’Ottaviano dalle incerte origini che ricerca, o meglio pretende di essere l’anello di una catena indissolubile di una discendenza divina, e ciò per rafforzare il proprio potere, per giustificarlo e per quel desiderio quasi inconfessabile che porta alcuni uomini alla fama, al mito. Poiché Mecenate, di nobili origine etrusche, asserisce che tutto ciò che era sorto lungo il Tevere era opera dei Rasna, cioè degli Etruschi, si rende necessario approfondire, ricercare, andare nei luoghi ove ancora esistono questi ultimi, anche per comprendere il motivo per cui la scrittura fra gli Etruschi abbia così poco valore da non produrre libri in un popolo così evoluto, anche se in declino. Eppure sapevano scrivere e anche bene, ma la loro religione, per la vocazione nominalistica della scrittura, ferma l’intera storia di un popolo nella immobile, stringente definitività del tempo, e, come dice Aisna, il sommo sacerdote del dio Velthune, Chi non ha un nome non muore in eterno. In questo contesto i tre viaggiatori apprenderanno delle origini di Roma all’interno del tempio di Mantus nel corso di un viaggio soprannaturale nel tempo; liberi dai limiti inevitabilmente temporali dei propri corpi, avranno così modo di rivivere l’infinito numero delle vite precedenti, l’unico mezzo per viaggiare nel tempo, per tornare indietro o per proiettarsi nel futuro (ma qui si gira il corso del tempo perché si vuol conoscere ciò che è avvenuto molti secoli prima). Vedranno, così, lo sbarco dei troiani capeggiati da Enea, la loro fredda determinazione a ricreare il vecchio stato in una nuova terra eliminando ferocemente tutti i maschi delle popolazioni lì insediate e salvando solo le donne, atte alla procreazione per rinsaldare la nuova stirpe. La scoperta per Virgilio è sconvolgente, perché dovrà costruire un mito, che è basato sulla violenza, modificando la storia, facendo apparire bello ciò che è brutto, edificante ciò che è laido; questa sarebbe la ragione per la quale l’Eneide, invano continuamente reclamata da Augusto, dopo anni è ancora incompiuta. Il poeta di Andes non vuol consegnare al tempo e ai posteri un’invenzione, ma nemmeno può descrivere la verità, e allora, sentendosi morire, ordinerà di distruggere quanto ha fino ad ora scritto, ordine, per nostra fortuna, non rispettato. Un infinito numero è la storia di un accentuato contrasto fra due civiltà, quella etrusca, ormai alla fine, che rifiuta la letteratura e la scrittura, in quanto portatrici di morte, e quella romana, che invece le pone sugli altari come unica possibilità per sopravvivere dopo la morte, un’indiretta forma di eternità di cui l’uomo vagheggia affinché, quando il suo corpo diventerà polvere, restino almeno il nome e la sua fama. Però, Un infinito numero è anche il libro sulla genesi dell’Eneide, sulle figure di uomini come Mecenate, il cui nome è sopravvissuto alla sua morte; non è solo questo, tuttavia, perché è anche un’opera sul tempo che sembra scorrere veloce per gli umani, ma che è di un’assoluta immutabilità nell’eterno, tanto da ripresentare fatti e situazioni come se fossero una lunga storia di nascite e di morti, di scomparse e di ritorni. L’uomo non è che pulviscolo celeste e nella sua effimera esistenza è il frutto di un infinito numero di vite e di combinazioni. Libro non certo facile per le sue variegate sfumature, Un infinito numero è tuttavia un romanzo di straordinaria bellezza, un altro dei non pochi capolavori di Sebastiano Vassalli.
Con la sua consueta abitudine di dare una lettura personale e originale della storia passata, Vassalli ci propone un'inedita ricostruzione dell'ultimo periodo della vita del grande Virgilio, periodo tormentato dalla faticosa stesura del poema che avrebbe dovuto glorificare la nobiltà e la magnificenza di Roma e dell'Impero. Ma gli anni passano, le illusioni cadono, e il poeta non è più tanto convinto di voler consegnare ai secoli l'immagine falsata di un potere che, ancora una volta, si rivela fondato sulla violenza e sulla menzogna. L'Eneide deve essere distrutta perché canta questa menzogna e asseconda il potere: queste sono le ultime, inascoltate volontà del suo autore, prima che il suo tempo nel mondo giunga al termine. Questo è il racconto del viaggio, reale o immaginario, intrapreso dal vate nel cuore dell'Etruria, alla ricerca di una verità sulle origini di Roma, di una traccia da cui poter trarre il suo mito di fondazione. Ad accompagnarlo un giovane liberto greco, Timodemo, e l'amico Mecenate. "Secondo l'etrusco Mecenate, tutto ciò che era sorto, in un lontano passato, sulle rive del Tevere, era sorto per opera dei Rasna, cioè degli Etruschi". Ma Virgilio era di un altro parere: "Che civiltà può essere stata quella degli Etruschi, se non ha prodotto una letteratura? E che storia può aver avuto chi non ha sentito il bisogno di raccontarla ai suoi discendenti?". Il loro cammino li condurrà sulle orme di una civiltà ormai al suo declino, eppure memore della propria grandezza, fieramente custode della propria sapienza e della propria storia, che poi è, in fin dei conti, uguale alla storia di qualsiasi altra civiltà: un infinito numero di uomini ci hanno preceduto, un numero altrettanto infinito di generazioni seguiranno la nostra, fino alla fine dei tempi; un infinito numero di guerre, di massacri, di migrazioni, di conquiste, di tramonti e rinascite, di nuove epoche che germoglieranno dalle ceneri delle vecchie; nuove unioni consacrate dai saccheggi, dagli stupri, dalle sopraffazioni. La memoria delle violenze imposte e subite si perde nella coscienza di una nuova identità, che va preservata dal ricordo degli orrori passati da cui è scaturita. La scrittura come forma di memoria ha il compito di celare dietro la patina della gloria verità ben più meschine, impone loro un ordine e una precisa funzione morale. La parola scritta, che gli Etruschi ripudiavano, era per loro sinonimo di morte: definisce una volta per tutte le cose e gli eventi. Una volta data, non si può tornare indietro, tramanderà alla Storia la sua congerie di menzogne e verità. La Storia è un susseguirsi di cose già viste: siamo i figli della guerra, delle battaglie, del saccheggio, delle stragi e dei soprusi, degli stupri e degli abusi, degli schiavi e dei padroni, degli oppressi e degli oppressori, degli sconfitti e dei vincitori, egli invasi e degli invasori, delle lacrime e della disperazione, e qualche volta anche dell'amore.
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