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Johann Wolfgang Goethe

1749, Francoforte sul Meno

Johann Wolfgang Goethe è stato un poeta tedesco.
Gli anni giovanili: Nacque nella agiata famiglia borghese di un consigliere imperiale. Aiutato dalla madre, giovane e intelligente, mostrò genialità precoce, imparando facilmente più lingue, e scrivendo prestissimo per il teatro delle marionette (dove poté conoscere, tra l’altro, la popolare leggenda del dottor Faust). A sedici anni lasciò Francoforte per studiare legge a Lipsia. Furono anni di intensa vita sociale e culturale; si interessò alla medicina, alle arti figurative e al disegno, e cominciò a scrivere versi di tonalità anacreontica, libertina e scherzosa (Il libro di Annette, Das Buch Annette). Alla rottura del breve idillio con Käthchen Schönkopf seguì una fase di turbamento e agitazione; poi, col ritorno a Francoforte (1768), una pericolosa malattia. In quel difficile periodo G. venne in contatto con l’ambiente religioso dei pietisti, in particolare con Susanne von Klettenberg (alla quale si ispirerà nel Meister per il personaggio dell’«anima bella»), e si diede a letture alchimistiche ed esoteriche. Nel 1770 G. si recò a Strasburgo per finire gli studi. Vi ebbe la rivelazione dell’arte gotica, di Shakespeare e di Ossian, soprattutto grazie all’amicizia con Herder, e si innamorò di Friederike Brion, figlia del pastore protestante di Sesenheim. La gioia e le tensioni di quell’amore, insieme alla partecipazione alla bellezza della natura, intesa come immediata vitalità, gli ispirarono alcune delle più belle liriche di questo periodo, mentre il sentimento di colpa seguito all’abbandono di Friederike diventerà, trasposto, quello di Faust verso Margherita. Nel 1771, a Francoforte, G. scrisse una prima versione (una seconda la pubblicherà nel 1773) del dramma Götz von Berlichingen, cavaliere dell’età della Riforma il cui ribellismo libertario esaltava i giovani scrittori dello Sturm und Drang. Di quegli anni (1771-75) sono anche i frammenti lirici di due drammi mai scritti, Prometeo e Maometto, nei quali troviamo la coscienza orgogliosa della lotta e del dolore degli uomini e l’immagine della vita dell’umanità come acqua che scorre dalla sorgente al mare. Questo momento «titanico» di G. si espresse in inni scritti in ritmo libero; fra questi è il cosiddetto Ciclo del viandante, composto fra il 1772 e il 1774, e concluso nel 1777, quando il poeta era già a Weimar, col Viaggio d’inverno nello Harz (Harzreise im Winter). Tra il maggio e il settembre 1771 G. era stato a Wetzlar, praticante presso il tribunale. Là si era innamorato di Charlotte Buff, fidanzata a J.Ch. Kestner. Di ritorno a Francoforte, traspose quell’amore irrealizzabile nel romanzo epistolare I dolori del giovane Werther (Die Leiden des jungen Werther, 1774). Il travolgente successo internazionale di quest’opera, e lo scandalo da essa suscitato, fecero di G. il dominatore incontrastato della scena letteraria tedesca. G. entrò in rapporto con Klopstock, Lavater e i fratelli Jacobi, e si accostò al misticismo di Swedenborg e a Spinoza. Un nuovo amore (Lili Schönemann) ispirò a G. altre liriche, il dramma Clavigo (da un episodio della autobiografia di Beaumarchais), che ha come protagonista la figura del fidanzato infedele, e il «dramma per innamorati» Stella, che tratta il tema scabroso del «doppio matrimonio». Nel 1775 G. viaggiò in Svizzera insieme ai fratelli Stolberg e si spinse fino al Gottardo, attirato dall’Italia. Tornato a Francoforte, ruppe il fidanzamento con la Schönemann.Il primo decennio a Weimar e il viaggio in Italia Nell’ottobre, il diciottenne duca di Weimar, Karl August, gli offrì il posto di suo precettore e G. accettò. Aveva già scritto (dopo il 1772), e nel dicembre lesse alle dame di corte, un dramma su Faust: è il cosiddetto Urfaust, il capolavoro dello «Sturm und Drang», ritrovato nel 1887 fra le carte di una damigella che l’aveva copiato. Nelle linee principali la vicenda corrisponde a quella che sarà la prima parte del Faust definitivo: ci sono il dramma del mago e la tragedia di Margherita, espressi in un linguaggio duro e vibrante, soprattutto nelle scene in prosa, che la successiva rielaborazione in versi attenuerà in vista d’una diversa armonia. A Weimar, nella modestissima capitale del piccolo e arretrato ducato, G. si impegnò in una varia attività di riformatore e organizzatore. La città divenne un centro culturale di prim’ordine. Herder, Wieland, Schiller vi si stabilirono. G. si dedicò anche allo studio delle scienze, soprattutto mineralogia, botanica e ottica (la sua antinewtoniana Teoria dei colori è l’opera cui in qualche momento sperò di affidare il meglio di sé). Il primo decennio weimariano (1775-1786) è profondamente segnato dalla relazione amorosa e intellettuale, di reciproca educazione sentimentale, con Charlotte von Stein; con lei scambiò un memorabile carteggio, ne educò il figlio, le dedicò molte delle sue poesie più belle. In quegli anni G. continuò a lavorare al Faust, scrisse la prima versione del Meister (La vocazione teatrale di Wilhelm Meister, Wilhelm Meisters theatralische Sendung, che come l’Urfaust, sarà pubblicata solo dopo più di un secolo), compose due celebri ballate (Il pescatore, Der Fischer, 1778; e Il re degli Elfi, Erlkönig, 1782) e gli inni Limiti dell’umano (Grenzen der Menscheit, 1778) e Il divino (Das Göttliche, 1783).Nel 1786 (3 settembre) G. «fuggì» improvvisamente da Weimar (e dalla Stein): sotto falso nome, lasciò la Germania per il viaggio in Italia che aveva lungamente fantasticato. Ritornerà a Weimar il 18 giugno 1788. Il duplice soggiorno a Roma e l’itinerario, fino in Sicilia, le cui note apparvero quarant’anni dopo (1828), rielaborate nel volume Viaggio in Italia (Italienische Reise), furono un evento centrale nella vita di G., che lo intese come liberazione dei sensi e scoperta dello spirito «classico» e della concretezza umana e terrestre. Furono anche due anni di intenso lavoro letterario: scrisse le Elegie romane (Römische Elegien, 1789), di aperta e spesso ironica sensualità (dopo un successivo soggiorno di quattro mesi a Venezia, nel 1790, aggiunse a esse i sarcasmi e le allegre oscenità degli Epigrammi veneziani, Venetianische Epigramme), riprese Faust e ne scrisse alcune importanti scene, versificò Ifigenia in Tauride (Iphigenie auf Tauris, 1787) che già aveva redatto in prosa. Questo dramma, in trimetri giambici non rimati, è una delle vette dell’opera di G. L’ideale dell’umanesimo, il superamento della violenza nella fiducia e nella purezza, s’incarnano nella missione di armonia che la donna (simbolo della poesia) è chiamata a compiere come civilizzatrice delle società virili.Il ritorno a Weimar. La maturità Il ritorno a Weimar aprì un periodo di crisi nei rapporti di G. con la corte e la società, ma anche la fase straordinaria dell’amicizia e della collaborazione con Schiller. Il gusto e la moda non si accordavano con il suo nuovo «classicismo». G. si dedicò soprattutto a studi di fisica e di scienze naturali, scandalizzò la buona società convivendo con Christiane Vulpius (giovane fiorista che sposerà solo nel 1806) e assunse pubblicamente quella maschera «olimpica», quel distacco apparente dalle passioni che convenzionalmente lo connotano nella storia della cultura. Intanto terminava due drammi, con i quali, seppure in forma diversa, prese le distanze dalla passionalità che era stata, quindici anni prima, la materia del Werther: Torquato Tasso, in versi, imperniato sul conflitto tra il soggettivismo del poeta e l’equilibrio dell’amico Antonio Montecatino, e Egmont, dramma in prosa ispirato a un episodio della lotta fra gli oppressori spagnoli e le popolazioni fiamminghe. Questa seconda opera non è senza analogie col Götz; ma più realistica e ricca di verità poetica è la rappresentazione del conflitto politico e più severo il senso di una inevitabile tragicità della storia. G. era, in questo periodo, intimamente turbato dagli eventi della rivoluzione francese. Vi vedeva, più che una esplosione di violenza liberatrice, l’insorgenza anarchica e irrazionale del disordine, distruttore del progetto di civile educazione che si era accompagnato alla sua formazione illuministica. Nel 1792 seguì il duca di Weimar nella campagna contro i francesi, e assistette alla battaglia di Valmy e poi alla rovinosa ritirata. Degli anni successivi sono tre mediocri commedie di polemica antirivoluzionaria, le favole Intrattenimenti di emigrati tedeschi (Unterhaltungen deutscher Ausgewanderten), il bel racconto La fiaba (Das Märchen) e la versione in esametri di un bestiario medievale, La volpe Reineke (Reineke Fuchs, 1794). Fra il 1795 e il 1796 terminò la seconda redazione del Meister, Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister (Wilhelm Meisters Lehrjahre): questo Entwicklungsroman (romanzo di un’evoluzione spirituale) riassume la vita, il costume e il destino del Settecento tedesco in un nodo di personaggi realistici e di situazioni simboliche, ma soprattutto propone un’interpretazione della sorte umana, un suo possibile adempimento etico-estetico. Wilhelm è un giovane borghese che volta le spalle alla realtà prosaica per l’ambiente del teatro; una fitta trama di eventi a poco a poco lo conducono a uscire dalla illusione letteraria e accettare la vita attiva. Solo alla fine Wilhelm scoprirà che i suoi casi erano stati predisposti, al fine di educarlo, da una sorta di benefica massoneria, la Compagnia della Torre.Nel decennio della collaborazione con Schiller, che i tedeschi chiamano «età classica» per antonomasia, G. scrisse (con Schiller) violenti epigrammi polemici (Xenien), pubblicò articoli e saggi sulla rivista «Die Propyläen» (1790-1800), compose l’idillio in esametri Arminio e Dorotea (Hermann und Dorothea, 1797), alcuni frammenti epici (Achilleis) e lirici (Metamorfosi degli animali, Metamorphose der Tiere, 1799), il dramma La figlia naturale (Die natürliche Tochter, 1802), che riprende il tema dei rapporti fra le classi e, sotto complesse metafore, quello della rivoluzione francese (il medesimo tema ricompare nel dramma Pandora, del 1808, e in due fiabe: Ballade, scritta fra il 1813 e il 1816, e Novelle, del 1828). Ma soprattutto lavorò al compimento del Faust: la prima parte, definitiva (dopo il Frammento del 1790), uscì nel 1808.Gli ultimi anni Negli anni della parabola napoleonica, G. (che con Napoleone si incontrò nel 1808 a Erfurt) moltiplicò i contatti con le maggiori personalità culturali del tempo, ma sentendosi sempre più estraneo all’attività letteraria delle nuove generazioni romantiche. Con la morte di Schiller (1805) si aprì un periodo di delusione e di ripiegamento. Mentre la sua fama europea cresceva ogni anno, il poeta si sentiva sempre più isolato in patria e sempre più si interessava alla cultura inglese, francese e italiana. È di quegli anni l’enigmatico romanzo Le affinità elettive (Die Wahlverwandtschaften, 1809). Sul tema settecentesco delle due coppie sbagliate, che invano cercano un più giusto legame d’amore, si sviluppa una sconsolata immagine della fine della società aristocratica e della impossibilità dell’azione socialmente utile. Negli anni successivi, dall’incontro con Marianne von Willemer e da un protratto studio della poesia orientale (in particolare persiana) nascono le liriche del Divano occidentale-orientale (Westöstlicher Divan, 1814-19): poesia cosmica ed erotica, gnomica e mistica, nella quale G. esibisce il proprio gusto per il travestimento e l’ambiguità dei sentimenti. Dello stesso periodo (1809-14 e poi 1830) è l’autobiografia Dalla mia vita. Poesia e verità (Aus meinem Leben. Dichtung und Wahrheit), che narra eventi e persone dell’infanzia e della giovinezza, fino al 1775. Intanto G. lavorava alla seconda parte del Meister, Gli anni di peregrinazione di Wilhelm Meister (Wilhelm Meisters Wanderjahre). L’opera si venne costruendo per quasi un trentennio come una congerie di racconti entro una cornice dove si muovono, quasi irriconoscibili, i personaggi del primo Meister. Tema dell’opera è la rinuncia alla felicità del singolo per il bene comune. In una «provincia pedagogica» minuziosamente descritta, G. (porgendo attenzione ai problemi dell’industrialismo e del colonialismo) disegna una sua utopia sociale; inseparabile però da un deciso pessimismo sulla umana esistenza. Solo poco prima della morte (22 luglio 1831), G. suggellò l’opera capitale della sua vita, con la seconda parte del Faust, in cinque atti, che uscirà, postuma, l’anno stesso della morte (1832). Nell’ultimo decennio G. collaborò alla rivista «Arte e antichità» (Kunst und Altertum), seguì con passione la vita letteraria europea (Balzac, Manzoni, Stendhal), studiò la poesia classica cinese e Dante. La sua fervida vita intellettuale è fedelmente trascritta nei Colloqui, redatti dal segretario, J. Eckermann. L’estremo amore del vecchio G. per Ulrike von Lewetzov, ispirò l’ultima grande lirica (la Elegia detta di Marienbad, 1823). Nel 1829 la prima parte del Faust venne rappresentata integralmente a Weimar e in altre città tedesche.Interpretazioni dell’opera goethiana La vastità, la complessità contraddittoria e la genialità dell’opera di G. spiegano perché la cultura borghese del suo tempo (e più quella del successivo nazionalismo germanico) lo abbia consacrato semidio onniscente, mentre non sono mancate avversioni e contestazioni anche virulente. Maestro di romanticismo all’Europa, il suo classicismo posteriore non fu compreso né dagli ambienti religiosi tradizionali né da quelli romantici e neocattolici del primo ventennio del secolo. Avverso alla rivoluzione francese ma ammiratore di Napoleone, G., con la sua smentita fede nella razionalità illuministica ma con la sua scarsa simpatia per lo spirito democratico, fu più ammirato che amato. L’età bismarkiana e quella dell’imperialismo germanico trasformarono G. in un monumento; il positivismo ne esaltò le attitudini e le indagini scientifiche; le tendenze irrazionalistiche lo rivalutarono e lo imposero come poeta del demoniaco, dell’azione sfrenata e del desiderio inesausto. Nel nostro secolo (dopo che, per gran parte del mondo, Weimar non fu se non il nome della piccola città distante pochi chilometri dal campo di sterminio di Buchenwald), il pensiero critico contemporaneo è ancora profondamente perplesso di fronte a G. Un ampio settore ritiene inconciliabile il più profondo senso dell’opera goethiana (lo sviluppo della personalità individuale, con la dimensione e la funzione dell’uomo nella società tecnologica avanzata) e tende quindi ad allontanarlo come il frutto «classico» di una illusione, quella umanistico-borghese. Una corrente critica marxista, rappresentata soprattutto da Lukács, vede in G. la massima figura, con Hegel, della cultura occidentale tra l’età illuministica e la nascita del socialismo. Studiosi più recenti misurano ormai l’opera goethiana come una enorme enciclopedia, alla quale ci possono essere di guida solo scienze particolari, come la linguistica e la psicanalisi. In ogni caso, al centro di essa si colloca l’uomo come polo e misura di tutte le cose, che apre il proprio spazio interiore al massimo di esperienze e di commozioni (al massimo di «naturalezza») e si propone, attraverso l’arte, un ritratto onnicomprensivo del mondo, incluse le sue incrinature: egli recepisce e considera così il massimo del fare e dello spirito borghesi, senza tuttavia individuare − al di fuori di essi − una nuova, più alta e complessa realtà capace di sostituirli.

Fonte immagine: editore Feltrinelli

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