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Giacomo Leopardi

1798, Recanati

Primogenito del conte Monaldo e di Adelaide dei marchesi Antici, crebbe in un ambiente politicamente e culturalmente retrivo, del cui conformismo non tardò a soffrire. Ricevette la sua prima educazione dal padre (il quale coltivava interessi letterari ed eruditi) e da precettori ecclesiastici, ma presto continuò gli studi per conto proprio nella ricca biblioteca paterna, perfezionandosi nella conoscenza del latino e imparando da solo il greco, l’ebraico e alcune lingue moderne. Risalgono a questo periodo (1808-16 ca) le sue versioni di Esiodo, degli Idilli di Mosco, del primo libro dell’Odissea, della Batracomiomachia, e la composizione di rime bernesche, di due tragedie, di poemetti biblici, di dissertazioni filosofiche, di opere erudite come la Storia dell’astronomia (1813) o come il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815), un curioso elenco di superstizioni che rivela tutta l’educazione illuministica dell’autore (formatosi ampiamente sui testi del razionalismo francese) e nello stesso tempo la sua passione profonda per le «favole antiche»: opere scolastiche tutte, ma in cui già emergono temi e atteggiamenti che saranno propri del L. maturo. L’isolamento di questi anni acuì la sua già delicata sensibilità (educatasi inoltre librescamente a letterari principi di perfezione); e la mancata esperienza di nuove e più aperte relazioni umane e sociali gli rese più penosa quella frattura che ogni adolescente sempre avverte tra i propri ideali e la «volgarità» della vita. Nel 1816 compose alcuni abili calchi della poesia antica, l’Inno a Nettuno e le Odae adespotae; e anche la prima poesia originale, L’appressamento della morte, piena di reminiscenze dantesche e petrarchesche, eppure già leopardiana nel rimpianto per la spenta giovinezza.
Ma attorno al 1816 si colloca anche quella che lo stesso L. chiamò la propria «conversione letteraria», con il «passaggio dall’erudizione al bello», cioè a un apprezzamento nuovo dei valori poetici. Non era in realtà che un aspetto di una «conversione» di più ampia portata, che andava al di là del mero ambito letterario, e i due anni successivi (1817-18) segnarono per il giovane L. una svolta importante e registrarono una sua più lucida reazione all’ambiente: strinse amicizia con P. Giordani (che gli diede stima, incoraggiamenti, consigli); si invaghì, segretamente, della cugina Geltrude Cassi Lazzari, e in quella circostanza scrisse la pateticissima lirica Il primo amore e una sottile disamina dei sentimenti in lui manifestatisi (Diario d’amore); si volse alla poesia patriottica, scrivendo con spiriti liberali le canzoni All’Italia e Sopra il monumento di Dante; e progettò addirittura una fuga da Recanati. Il paese natale era sentito da L. sempre più come la soffocante prigione del suo resistente vitalismo e delle sue legittime ambizioni, come testimonia quel lucido esame di coscienza che è la lettera al padre, in cui egli rivela i motivi della sua infrazione filiale. Il tentativo venne però sventato. Seguì allora un periodo di estremo abbattimento, aggravato anche da una malattia agli occhi che gli rendeva assai penoso lo studio.
In questi stessi anni L. venne formulando una concezione dolorosamente pessimistica del reale, che si farà via via sempre più rigorosa e coerente e che in sede di scrittura si affidò in prevalenza allo Zibaldone (un’amplissima raccolta di ragionamenti e note filosofiche, psicologiche, letterarie, scritti fra il 1817 e il 1832, e soprattutto fra il 1820 e il 1826): in sostanza L. contrappone l’innocente e sereno stato di natura alla civiltà, condizione tormentosa che ha reso l’uomo insieme raziocinante e infelice. Sul piano della poetica questo pensiero si traduce in un singolare, antiaccademico recupero del classicismo, mirante ad attingere una remota antichità non ancora contaminata dal progresso e dal filosofeggiare dell’uomo, e si svolgerà più tardi, verso il 1820, nella constatazione dell’impossibilità di realizzare nei tempi moderni una poesia basata sulla creazione di immagini («poesia immaginativa»), restando possibile solo una «poesia sentimentale», volta all’analisi degli stati d’animo. Roussoianesimo e alfierismo concorrono a nutrire questa concezione, ben esemplificata dai due articoli di polemica antiromantica (ma con notevoli inflessioni romantiche) che egli scrisse negli anni 1816-18 e che rimasero inediti: Lettera ai Sigg. compilatori della «Biblioteca italiana» e Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica. A tali riflessioni di natura teorica corrispondono le realizzazioni poetiche di quegli anni. Tra il 1819 e il 1821, infatti, L. compose i primi idilli (L’infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, Il sogno, La vita solitaria), un gruppo di liriche nelle quali gli oggetti e i paesaggi assumono una amplissima risonanza sentimentale, dove dominano i toni della evocazione e della memoria e dove il dolore per il cadere di dolci speranze e per l’inesorabile trascorrere del tempo si sublima nella composta contemplazione di un’immensa natura onnicomprensiva. Parallelamente, tra il 1820 e il 1822, egli compose anche varie canzoni (Ad Angelo Mai, Nelle nozze della sorella Paolina, A un vincitore nel pallone, Bruto minore, Alla primavera o delle favole antiche, Ultimo canto di Saffo), la cui nota saliente è costituita da un certo eroico agonismo, volto contro la tirannia del destino e le disumane leggi universali.
Nel 1822 L. ebbe dalla famiglia il permesso di recarsi a Roma, dove conobbe tra l’altro il grande filologo B.G. Niebuhr; ma la città lo deluse e gli rivelò ancora più chiaramente la sua inettitudine ai rapporti mondani. Tornato a Recanati, vi trascorse due anni di tenace lavoro, scrivendo un gran numero di pagine dello Zibaldone, l’Inno ai patriarchi e la canzone Alla sua donna, in cui la figura femminile oggetto del canto appare come sogno evanescente, irraggiungibile ideale. A quel periodo risale anche la maggior parte delle Operette morali, dialoghi e prose filosofiche in cui L. attribuisce ancora in parte l’infelicità umana al distacco dalla natura, ma, adottando posizioni sensistiche, la considera soprattutto conseguenza della costituzionale fugacità del piacere. Il discorso è qui lento, distaccato, stilizzatissimo, e affronta con tono ironico-fantastico i miti del suo pensiero: la Natura e la Morte, il Piacere e il Dolore, la Felicità e la Noia ecc. Il Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare, il Dialogo di un folletto e di uno gnomo, il Dialogo della Natura e di un’anima, il Dialogo della Natura e di un islandese, il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, il Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez sono forse, tra le Operette, le prove più alte della prosa leopardiana, bizzarra spesso, come è nella tradizione dei dialoghi morali, ma anche cadenzata con lirica intensità. Su un registro diverso, fondamentalmente patetico, altre grandi prove fornisce l’Epistolario, dal quale è possibile estrarre quel «romanzo di un’anima» di cui L. lasciò progetti e appunti seppure minimi. Nel 1825, accettando la proposta dell’editore Stella di curare un’edizione di classici, partì per Milano, dove conobbe V. Monti e l’abate Cesari; quindi si trasferì a Bologna, dove fece conoscenza con il conte Carlo Pepoli e si innamorò, non corrisposto, della contessa Teresa Carniani Malvezzi. In tale periodo preparò per l’editore Stella un’edizione commentata del Canzoniere di Petrarca, scrisse l’epistola Al conte Carlo Pepoli e approfondì la propria concezione materialistica del mondo, giungendo a rovesciare alcune sue iniziali premesse e a identificare nella Natura (materia in perenne, inesorabile trasformazione che garantisce il perpetuarsi delle specie soltanto attraverso il sacrificio dei singoli individui) la causa prima dell’infelicità dell’uomo.
Dopo un terzo breve soggiorno a Recanati si trasferì nel 1827 a Firenze, dove fece conoscenza con Vieusseux, Niccolini, Colletta, Tommaseo, Manzoni; e quindi a Pisa: ivi, interrompendo un silenzio poetico che, tranne la parentesi di Alla sua donna, durava dal 1821, scrisse i canti Il risorgimento e A Silvia (1828). Tornato poi a Recanati, vi trascorse due anni (1828-30), durante i quali compose i cosiddetti grandi idilli: Le ricordanze, Il passero solitario, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia. In queste liriche agli accenti prometeici si sono sostituiti il senso di un universale dolore e una pietà che tocca tutti i viventi (sia «eroici» che umili), tutti egualmente illusi dalla Natura matrigna nei loro giovanili sogni di felicità e da essa poi tutti egualmente ingannati e travolti. Nel 1830, grazie all’aiuto di P. Colletta e di altri amici toscani, L. poté tornare a Firenze. Qui egli nutrì l’ultimo suo intenso e sfortunato amore (per Fanny Targioni Tozzetti) che gli ispirò cinque poesie: Il pensiero dominante, Amore e morte, Consalvo, A se stesso, Aspasia; in esse l’amore è considerato come la sola esperienza (assieme a quella della morte) capace di affrancare l’uomo dal tedio. Fece anche amicizia con un esule napoletano, Antonio Ranieri, e curò la prima edizione dei propri Canti (1831; la seconda edizione sarà del 1835). Nel 1833 si trasferì con Ranieri a Napoli, dove visse gli ultimi dolorosi anni e compose il Dialogo di Tristano e di un amico, il poemetto eroicomico in ottave Paralipomeni della Batracomiomachia e le ultime liriche: la citata Aspasia, Sopra un bassorilievo antico sepolcrale, Sopra il ritratto di una bella donna, Palinodia al marchese Gino Capponi, I nuovi credenti, La ginestra, Il tramonto della luna. L’estrema produzione poetica di L. alterna al motivo del rimpianto per le speranze troppo presto distrutte quello della polemica ideologica contro il facile ottimismo dei liberali moderati, legati a una meschina idea di progresso: tornando a certo illuminismo titanico, egli sottolinea infatti la necessità che tutti gli uomini ripudino ogni superficiale mito consolatorio e si uniscano invece fraternamente e coraggiosamente per meglio fronteggiare il cieco dispotismo della Natura. Nel giugno 1837 L. moriva in seguito all’aggravarsi dei mali (idropisia, asma) di cui era da tempo sofferente.

(dall'Enciclopedia della Letteratura Garzanti)

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