Francis Scott Fitzgerald è stato uno scrittore statunitense, considerato il più grande esponente dei "Roaring twenties", i Ruggenti Anni Venti.
Nel microcosmo familiare è l’origine della sua insicurezza e del suo conseguente, precoce sogno di successo: il padre era un gentiluomo del Sud, di scarsa fortuna economica; la madre, di ascendenza irlandese e cattolica, era figlia di un ricco commerciante.
Grazie al nonno materno, Fitzgerald studiò alla Newman School, nel New Jersey, e poi a Princeton, dove strinse durevole amicizia con Edmund Wilson, la sua «coscienza intellettuale».
Nel 1918, lasciati gli studi per arruolarsi nell’esercito, incontrò a Montgomery, in Alabama, Zelda Sayre – modello di tutte le «ragazze dorate» dei suoi racconti – che sposò appena ebbe raggiunte, con i primi straordinari successi letterari, la fama e la ricchezza.
Fu l’inizio della leggenda vissuta da Fitzgerald e Zelda (cui presto si aggiunse «Scottie», la figlia nata nel 1921) tra Europa e America, tra la Parigi degli espatriati americani – Hemingway, Gertrude Stein, Dos Passos – e la New York dell’«età del jazz»: una sorta di perenne, illusoria festa durata fino ai primi sinistri annunci del crollo: la disastrosa crisi economica del 1929, le difficoltà finanziarie ed emotive di Fitzgerald, i sintomi della malattia mentale di Zelda, costretta dal 1929 a ricoveri sempre più frequenti (e destinata a morire, nel 1948, nell’incendio della clinica dove viveva).
Dimenticato, invecchiato, alcoolizzato, quasi il fantasma di sé stesso, Francis tentò disperatamente nei suoi ultimi anni, a Hollywood come sceneggiatore, di ricuperare la felicità creativa della giovinezza; la morte lo colse al lavoro.
Di qua dal paradiso (This side of paradise, 1920), il primo romanzo di Fitzgerald – tra autobiografia, documento e favola –, fu lo specchio in cui si riconobbe «una generazione» che aveva trovato «tutti gli dei morti, le guerre combattute, le possibilità di fede nell’uomo sconvolte». Belli e dannati (The beautiful and damned, 1922), ritratto di una coppia inquieta, è uno studio del sogno e del disincanto.
Il grande Gatsby (The great Gatsby, 1925), uno dei classici della letteratura americana, fu la rivelazione di un ingegno ormai maturo, capace di analizzare emozioni e motivazioni delle classi agiate e di indicarne l’implicita distruttività. La forza del romanzo è nella sua lucidità formale di narrazione «indiretta», che, secondo la lezione di James e di Conrad, affida a un «testimone» il compito di evocare il magico e drammatico percorso del mito americano.
In Tenera è la notte (Tender is the night, 1934) i grandi temi di Fitzgerald – la felicità e lo spreco, il fascino e il denaro – trovano nuova enunciazione in un linguaggio fastoso e spettrale, in una tormentata struttura «aperta».
Nell’incompiuto Gli ultimi fuochi (The last tycoon, pubblicato nel 1941), oggetto, come Il grande Gatsby, di una versione cinematografica, l’analisi della sconfitta di un uomo di genio ha la suggestione di un testamento.
Tra le raccolte di racconti, in cui Fitzgerald riprese temi e motivi dei romanzi, sono Storie dell’età del jazz (Tales of the jazz age, 1922) e La sveglia (Taps at reveille, 1935). L’età del jazz (The crack up, 1945) è una scelta postuma di saggi che comprende i tre drammatici documenti della crisi di Fitzgerald scritti nel 1936 per «Esquire». Considerato soprattutto l’interprete dei «ruggenti anni Venti», F. è rimasto a lungo prigioniero della sua stessa leggenda di personaggio, più che di creatore.
In realtà ha scritto alcune tra le pagine più tese e perfette della prosa americana, caratterizzate da una raffinata economia compositiva, nel cui contesto ogni particolare, ogni immagine, ogni oggetto acquistano forza di simboli; e ha avuto, come nessun altro romanziere prima di lui, la capacità di rendere in termini poetici, con grande ricchezza di sfumature, il senso dell’esperienza americana, cogliendone l’oscura dimensione romantica.
«Non esistono secondi atti nelle vite degli americani.» - Gli ultimi fuochi