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Anno edizione: 2021
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Questo libro, pubblicato nel 2003, è ancora ricco di spinta e incisività, oltre a restare un irriducibile atto d'accusa contro la violenza: “nessuno può pensare e al tempo stesso colpire un altro essere vivente”.
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Come reagiamo al sangue in prima pagina e in prima visione? Come ci sentiamo quando accendendo la televisione, entrando sui social, sfogliando il quotidiano ci imbattiamo in corpi umani rovinati dalla violenza e dalla guerra? Per rispondere a questa domanda si fa molta fatica a ignorare la consapevolezza che dovremmo sentirci contrariati, inorriditi e rattrappiti nel nostro J'accuse contro la guerra e la violenza. Il punto però è che non ci sentiamo così: siamo assuefatti da fotografie e video che mostrano abitazioni bombardate, bambini morti per strada, piroscafi silurati, uomini e donne maltrattati e uccisi a causa di incongruenze ideologiche. Grazie ai telegiornali, ma ancor prima e soprattutto alla fotografia, realtà, immagine e dolore si combinano tra loro in un composto di atrocità che lungo andare si rattrappisce davanti ai nostri occhi, e diventando notizia tra le notizie assume lo spessore di un pettegolezzo. Perché pur mantenendo la loro immediatezza le immagini di guerra e di sofferenza non hanno più presa su di noi? Perché non ci ammoniscono più? Servono a qualcosa? E se sì, a cosa? Percorrere con lo sguardo il fiume di dolore che scorre negli occhi di un uomo fotografato nel momento esatto in cui un proiettile lo colpisce ci può aiutare a comprendere che il male fa male? Possono, insomma, delle immagini di guerra sembrare così familiari da allontanarci dalla loro atrocità? Riusciamo ancora a sostare davanti al dolore degli altri? In "Davanti al dolore degli altri" Susan Sontag si interroga sull'influenza delle immagini pittoriche prima e fotografiche poi sulla nostra percezione della realtà: se dipingere e fotografare una scena di guerra o una strada piena di cadaveri significa isolare un evento e quindi escludere ciò che gli sta attorno - e quindi fuori dalla cornice - perché allora non riusciamo a sentire con il cuore e con la mente quello che l'immagine vuole comunicare? È sempre stato così?
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