Compositore.
Le vicende biografiche fra roma, lisbona e madrid. Sestogenito di Alessandro, dopo i primi studi compiuti sotto la guida del padre ebbe nel 1701 la nomina a organista e compositore di musica della real cappella di Napoli ed esordì in campo teatrale nel 1703 con L'Ottavia ristituita al trono e con il Giustino. Accompagnò il padre, nel frattempo, a Firenze, e lo raggiunse poi a Roma; si trasferì quindi a Venezia, dove completò gli studi sotto la guida di F. Gasparini e dove incontrò Vivaldi e Händel. Maestro di cappella della regina Maria Casimira di Polonia a Roma, fra il 1709 e il '14 allestì vari melodrammi. Nel 1713 fu nominato coadiutore in S. Pietro; l'anno dopo ottenne il posto di maestro di cappella, che conservò sino all'estate 1719. Quell'anno si recò in Inghilterra per la rappresentazione del Narciso, rifatto per l'occasione. Un anno dopo era a Lisbona, al servizio di Giovanni v. Abbandonato il teatro (aveva prodotto una quindicina di opere fra cui, oltre le citate: Tetide in Sciro, 1712; Ifigenia in Aulide, 1713; Ifigenia in Tauri, 1713; Ambleto, 1715, prima versione musicale della tragedia shakespeariana; nonché la «farsetta» La Dirindina, 1715, importante per la storia dell'«intermezzo»), a Lisbona S. fu essenzialmente compositore di musica sacra (come già era avvenuto negli anni di servizio in S. Pietro), per cerimonie e occasioni varie. Nel 1724 era nuovamente in Italia; ma non aveva abbandonato il posto in Portogallo, e all'inizio del 1729 seguì l'infanta Maria Barbara di Braganza, di cui era maestro, nel suo trasferimento a Siviglia. Qui rimase sino al 1733, quando s'installò a Madrid, sempre seguendo la corte nei suoi trasferimenti. Nel 1738 pubblicò a Londra la raccolta dei 30 Essercizi per gravicembalo; nel 1746 divenne «maestro dei re cattolici», il principe Ferdinando essendo salito al trono. Negli ultimi anni ebbe vari allievi, il principale dei quali fu il padre Antonio Soler, che fu profondamente influenzato dal suo stile. L'ultima composizione datata di cui si ha conoscenza è una grande pagina di musica sacra, il Salve Regina del 1756 (ma in questo campo occorre citare anche la Messa del 1754, lo Stabat Mater, e i salmi).
Il «corpus» delle sonate per clavicembalo. Se di notevole rilievo fu la sua produzione vocale, la fama di Domenico S. è soprattutto affidata alla musica per clavicembalo, nella quale si affermò come vero e proprio creatore di uno stile. Il corpus delle sonate pervenute conta 555 composizioni, oltre a una dozzina considerate spurie. Le sonate vengono di norma identificate con una sigla e un numero, che si riferiscono a uno dei vari tentativi di ordinamento moderni: la sigla L si riferisce alla vetusta edizione a cura di A. Longo (10 voll. più uno di supplemento, 1906-08); la sigla K all'ordinamento proposto da R. Kirkpatrick (1953); la sigla rinvia invece all'edizione critica a cura di E. Fadini, in corso di pubblicazione dal 1978. Pochissime delle sonate furono pubblicate vivente S., e nessuna in Spagna o in Italia; i manoscritti a noi pervenuti, in splendida veste, furono probabilmente redatti per Carlo Broschi detto Farinelli, il grande sopranista attivo alla corte spagnola dal 1737 in qualità di direttore del teatro di corte. Nessuna di queste sonate è datata, e ben poche sono riferibili a precise circostanze esterne sicché risulta problematica un'indagine sulla loro cronologia. Quasi tutte (con l'eccezione di pochissimi esempi, probabilmente giovanili, improntati allo stile violinistico) sono in un solo movimento che tecnicamente viene definito bipartito, secondo un modulo che è dunque proprio dei tempi di danza: questi ultimi, tuttavia, sono alquanto rari, ma è significativo notare come siano frequentissimi ritmi e movenze di danza di origine spagnola (insieme con altri elementi spagnoleggianti quali gli aggregati armonici, la predilezione per certi intervalli, il particolare clima timbrico, le imitazioni di strumenti quali la chitarra o le castagnette). Se molte delle sonate sono monotematiche, moltissime, peraltro, consistono in un'invenzione pluritematica di continuo rinnovata, secondo la tradizione frescobaldiana.
Q poesia e invenzione nel linguaggio musicale scarlattiano. Il gusto per il popolaresco contribuisce a dare colore e sapore inconfondibile al linguaggio di S., un linguaggio che a volte si presenta arditissimo, in anticipo sui tempi, assolutamente originale sino ad apparire stravagante e rendere difficile cogliere una vera parentela con quello di altri autori. Per quanto riguarda i suoi modelli, poco margine resta dopo che si è messa in luce la discendenza da certo spirito «toccatistico» del padre. Il virtuosismo si presenta talvolta come una cifra della pagina musicale, nel senso che la indirizza verso proposte di conquiste tecniche; ma è un virtuosismo che non intacca la sostanza musicale, al contrario la nobilita, la rende più lucente, ne sottolinea le splendide e inesauribili risorse inventive. La bizzarria è sovente il veicolo più pronto alla rivelazione del ribollente mondo scarlattiano, di una semplicità formale quasi sconcertante, ma di una ricchezza d'invenzione sbalorditiva, anche quando il musicista sembra voler sfruttare moduli da lui già ampiamente collaudati e insistere sugli atteggiamenti che gli sono più tipici. Il gusto per l'improvvisazione non è disgiunto da una rigida applicazione del contrappunto; l'impiego degli ornamenti e di tutto quanto può abbellire il discorso non impedisce lo spiegamento d'una cantabilità trionfante o tenera; il senso prestigioso del ritmo e degli effetti ossessionanti che esso può raggiungere va di pari passo con la poetica ricerca di suoni nuovi, di timbri, di registri strumentali impensabili sul clavicembalo: strumento del quale S. celebra i fasti più di Couperin, persino più di Bach, spaziando sulla tastiera come mai era stato fatto, escogitando effetti straordinari, tali da costringere le mani a nuove posizioni (i giochi a mani incrociate sono frequenti), utilizzando arditamente la tecnica dei salti, sfruttando a fondo la pratica cembalistica, propria della scuola napoletana, di incorporare nell'accordo note estranee di passaggio, di acciaccatura o di pedale, sì da renderlo carico di tensione.