Compositore e violinista.
La vita. Suo padre, Giovanni Battista, era violinista della cappella di San Marco; Antonio studiò con lui e forse, per breve tempo, con G. Legrenzi. Ordinato sacerdote nel 1703 (e subito denominato, per la sua capigliatura, «il prete rosso»), fu dispensato dal celebrare la messa per le cattive condizioni di salute. Entrò come insegnante di violino nel conservatorio della Pietà, dove rimase sino al 1740; era questo uno dei quattro istituti veneziani dove, a somiglianza dei conservatori napoletani, trovavano assistenza (per lo più gratuita) orfani, figli illegittimi, malati. V. vi ricoprì di volta in volta, con interruzioni per viaggi, le cariche di maestro di cappella, maestro di coro, maestro dei concerti, dapprima alle dipendenze di F. Gasparini e poi (dal 1713) in veste di responsabile. In quel conservatorio esclusivamente femminile era famosa l'attività musicale delle «putte»; nascoste alla vista del pubblico da una fitta grata, le anonime cantatrici e strumentiste (per le quali V. scrisse la maggior parte dei suoi concerti, delle musiche sacre e delle cantate) ogni domenica e giorno festivo facevano sfoggio della loro abilità. Al 1705 risale la prima raccolta a stampa di composizioni vivaldiane (sino al 1740 saranno in tutto 14, ma sulle ultime due sussistono forti dubbi di attribuzione); al 1713 la rappresentazione della prima opera (Ottone in villa), cui ne seguiranno moltissime altre. È certo che V. si assentò frequentemente da Venezia (dal 1725 al '35 non è documentata la sua presenza alla Pietà) e fu anche all'estero (a Praga, Vienna, Amsterdam), sovente in compagnia della cantatrice Anna Giraud. Ancora non spiegata è la ragione della sua permanenza a Vienna, dove, in povertà, morì.
La produzione strumentale complessiva. La riscoperta dell'immenso patrimonio strumentale di V. (cui deve aggiungersi anche quella della sua musica vocale) è posteriore al 1945; prima, il «prete rosso» era noto soltanto per i rapporti della sua opera con l'esegesi bachiana, sviluppatasi negli ultimi decenni dell'Ottocento e impegnata a esplorare le zone limitrofe dello stile di Bach, il quale fu tra l'altro trascrittore di dieci concerti vivaldiani. Stupisce che dei circa 480 concerti a noi noti (ma il conto è aperto, poiché altre pagine affiorano di tanto in tanto dagli archivi di mezza Europa), soltanto 84 siano stati pubblicati vivente l'autore, che pure conobbe grande fama e godette di straordinario prestigio in tutta Europa. Secondo i dati desumibili dal repertorio dei lavori strumentali redatto da P. Ryom (1986), il catalogo concertistico vivaldiano annovera circa 330 concerti solistici, oltre due terzi dei quali per violino, 6 per viola d'amore, 27 per violoncello, 1 per mandolino, 17 per flauto traverso (od ottavino), 2 per flauto dolce, 18 per oboe, 39 per fagotto. Altri 45 concerti sono per due strumenti solisti e orchestra, in maggioranza per due violini (o per violino e un altro strumento), 3 per due oboi, 2 per due trombe, 2 per due corni, altri 3 rispettivamente per due violoncelli, due mandolini e due flauti traversi. Si aggiungono 34 concerti (detti «di gruppo») per tre o più strumenti solisti e orchestra d'archi, nei quali V. spesso introduce combinazioni timbriche sorprendenti o strumenti inconsueti, come le «viole all'inglese» (probabilmente un tipo di viola d'amore), lo chalumeau («salmò»), il corno da caccia («trombon da caccia»), il clarinetto, la tiorba. Altri 4 concerti sono «a due cori», cioè per due orchestre contrapposte, con uno o più strumenti solisti. Un gruppo a sé formano i 44 concerti detti «ripieni», per orchestra d'archi (a 4 parti) senza solisti, di stile più arcaico; e i 22 concerti «da camera» per 3-6 strumenti e continuo senza l'orchestra, collocabili a mezza via fra la sonata polistrumentale e il concerto solistico. A una trentina assommano, infine, i concerti perduti o pervenuti incompleti. Quasi tutti nella tipica forma tripartita (allegro-adagio-allegro), i concerti vivaldiani recano talvolta titoli descrittivi e programmatici: si ricordano Il gardellino, La tempesta di mare, La pastorella , Madrigalesco, Alla rustica, La notte, Il riposo , L'inquietudine, Il sospetto, Il piacere, La caccia, L'amoroso, oltre ai famosi 4 concerti denominati Le stagioni. Delle 14 raccolte a stampa, 9 riguardano concerti e furono tutte pubblicate ad Amsterdam; alcune recano intitolazioni significative: L'estro armonico op. 3 (1712), La stravaganza op. 4 (1712-13 ca), Il cimento dell'armonia e dell'invenzione op. 8 (1725 ca), La cetra op. 9 (1728).
Q «l'estro armonico». La più importante di tali raccolte è probabilmente L'estro armonico op. 3 (dedicata a Ferdinando iii di Toscana), ampiamente valorizzata da Bach, che trascrisse 6 dei 12 concerti che la compongono; essa consta di 4 concerti «con violino obbligato» (e quindi solistici: i numeri 3, 6, 9, 12) e di 8 concerti grossi (con due o quattro violini obbligati). In quest'opera si ritrova tutta la forza espressiva vivaldiana: il pulsare ritmico, l'armonica concentrazione del canto negli adagi, la polifonia tersa e levigata dei fugati, il gusto per la ricerca timbrica e l'invenzione del suono, il virtuosismo impiegato in chiave di cantabilità fiorita. Nei concerti solistici gli allegri sono concepiti secondo lo schema tipico alternativo di tutti (4 o 5 episodi) e solo (3 o 4 episodi), e con un discorso più corposo e più virtuosistico nel primo tempo; il movimento centrale è di breve durata e concede generalmente maggiore spazio al solista che si esibisce in passi fioriti e di grande cantabilità. Nei quattro concerti per due violini la struttura stilistica obbedisce a due diversi principi: quello del concerto solistico (i nn. 5 e 8) e quello del concerto grosso (i nn. 2 e 11), qui realizzato secondo i principi dello stile «da chiesa» (severo, e più interessato ai giochi contrappuntistici), più che «da camera» (brillante e intessuto di movenze di danza). Infine, dei quattro concerti con quattro violini, due costituiscono un'ulteriore estensione del concerto solistico (i nn. 1 e 4), mentre gli altri (i nn. 7 e 10) presentano un ampliamento del «concertino» (quattro violini e violoncello) nell'ambito del concerto grosso. Lo stile «da camera» è affermato nei concerti nn. 1 e 10, mentre i nn. 4 e 7 sono concerti «da chiesa». È indubbiamente in questi concerti per quattro violini che la raccolta dell'Estro armonico trova i maggiori motivi di originalità e novità, per il tentativo di creare nuove vie espressive, sfruttando quelle strutture «d'insieme» che discendevano dall'antica organizzazione polifonica dei «cori» veneziani.
Q «il cimento dell'armonia e dell'invenzione» e le altre raccolte. Stupenda è l'op. 8, che si intitola Il cimento dell'armonia e dell'invenzione e si apre con i celebri 4 concerti delle Stagioni, preceduti da sonetti esplicativi. La struttura è quella del concerto solistico, ma la materia sonora vi è organizzata con criteri nuovi. Il musicista sembra svincolarsi dal formalismo tradizionale, per cercare una nuova libertà espressiva, che viene raggiunta proprio attraverso il descrittivismo bizzarro e colorito, la ricostruzione di atmosfere naturalistiche e gli effetti imitativi. L'invenzione vivaldiana è qui stupefacente, come lo è, del resto, in tutto il favoloso complesso dei suoi 480 concerti, tanto in quelli compresi in raccolte, quanto in quelli «liberi», destinati agli strumenti più disparati (unici strumenti di rilievo esclusi sono quelli a tastiera). L'op. 10, del 1728, è dedicata, come le opp. 8, 9, 11 e 12, al principe Filippo d'Assia-Darmstadt, al cui servizio V. fu impegnato fra il 1719 e il '22, al tempo in cui il margravio aveva assunto il ruolo di governatore di Mantova. Essa comprende 6 concerti per flauto (tre con sottotitolo: La notte, Il gardellino, La tempesta di mare), dei quali, con la sola eccezione del n. 4, si conosce anche una versione manoscritta, probabilmente anteriore a quella a stampa, per un diverso organico strumentale. Il manoscritto contenente queste composizioni (conservato nel Fondo Giordano che, col Fondo Foà, entrambi alla Biblioteca Nazionale di Torino, costituisce la più rilevante raccolta di manoscritti vivaldiani esistente) presenta un unico concerto «a flauto solo», mentre i restanti quattro sono «concerti d'insieme» (cioè a più strumenti). Minore estro inventivo rispetto ai concerti presentano le 22 sinfonie (strutturalmente assimilabili ai concerti «ripieni») e le musiche cameristiche, comprendenti circa 85 sonate (44 a stampa), perlopiù per violino o due violini e continuo, 1 «a quattro» intitolata Al S. Sepolcro, alcune per violoncello, altre per flauto (fra cui la raccolta Il pastor fido op. 13, 1737 ca, probabilmente apocrifa).
La musica vocale profana e sacra. Ancora insufficientemente esplorato nella produzione vivaldiana è il settore vocale, che in prima linea prospetta il problema dei melodrammi. Alla fine della vita V. affermava di aver composto 94 opere, includendo probabilmente nel numero anche i «pasticci» e i vari rifacimenti. Almeno una cinquantina sono confermate dall'esistenza del libretto o da notizie certe sulla rappresentazione (fra queste il Montezuma, 1733, andato perduto). Di circa 18 la musica ci è pervenuta in forma sufficientemente completa; fra queste, Ottone in villa, la prima, del 1713; Tito Manlio, 1719-20; Il Giustino, 1724; Dorilla in Tempe, 1726; Orlando, 1727; La fida Ninfa, 1732; L'Olimpiade, 1732; Griselda, 1735). Nelle opere teatrali, pur senza recare contributi di novità essenziali, V. crea arie e interventi strumentali e corali molto intensi, come avviene anche nell'oratorio Juditha triumphans (1716), nella grande serenata La Senna festeggiante (1720 ca) e nelle altre 40 cantate da camera. Di alto livello è la produzione sacra, comprendente una sessantina di composizioni, fra cui spiccano una Messa completa, recentemente ritrovata, alcune sezioni di messa (2 Gloria, 1 Credo, 1 Kyrie), vari salmi (2 Beatus vir, 2 Dixit Dominus, 1 Nisi Dominus, 3 Laudate pueri, 1 Laetatus sum, 2 Magnificat) e altri lavori come 2 Salve Regina, lo Stabat Mater e i mottetti concertati. Ispirazione corale e solistica (con interventi di bravura) vanno qui di pari passo, ma la prima sembra raggiungere risultati migliori: quella mirabile concezione architettonica, quella purezza di linee, quella controllata e insieme umanissima pratica polifonica che contraddistinguono le più alte realizzazioni rinascimentali trovano, in queste pagine di V., un'ultima eco.