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Anno edizione: 2010
Anno edizione: 2012
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Saturno è il pianeta dei malinconici, e chissà, forse gli anelli che lo circondano possono anche intendersi come simbolo di questa clausura nei propri umori, così come dell'incapacità di oltrepassare i confini di un carattere ombroso. Gli anelli di Saturno di Sebald sono anche immagine della circolarità del suo percorso a piedi attraverso il Suffolk, suddiviso in dieci tappe e in altrettanti capitoli, dieci anelli insomma, ognuno dei quali ha come punto di partenza un luogo ben preciso dell'East Anglia, hortus conclusus dal quale però l'autore ci trasporta, con tecnica narrativa (appunto) ad anelli concentrici, nei luoghi e nelle epoche più inattesi dove incontriamo personaggi noti e meno noti, sempre guidati da una prosa in cui storia, racconto, biografia, sogni e visioni si mescolano e si confondono rivelando connessioni e corrispondenze, talora più evidenti, talaltra sottili come un filo di ragno, o meglio di seta, ovvero il filamento al tempo stesso esile e resistente di cui si occupò Thomas Browne (medico e letterato secentesco nel cui nome si apre e si chiude il percorso di questo libro) e con il quale, ci ricorda Sebald, si possono produrre anche corde per raffinatissime impiccagioni o tessuti per lugubri vestimenti funebri. Un libro saturnino nel senso di malinconico e depressivo, dunque? Assolutamente no, perché Sebald è certo un saturnino, ma il viaggio che ci racconta è, per sua stessa definizione, un pellegrinaggio, ovvero un viandare in cui la prospettiva di una spirituale trascendenza è sempre presente, ed ecco dunque che nell’ossessiva predilezione per la "storia naturale della distruzione" Sebald non ci appare come colui che descrive compiaciuto gli esiti fatali delle catastrofi, quanto come chi è in grado, con la forza del suo pensiero e l'alchemica, sincronica nigredo della sua arte, di veleggiare à rebours nel tempo e far rivivere ciò che fu, che non è più ma che continua comunque a esistere nel presente della nostra umana esperienza.
Radicatosi nel Suffolk inglese (East Anglia), pur non avendo smesso di scrivere in tedesco, W.G. Sebald vedeva la madrepatria dalla prospettiva dell’esule: – un romantico walseriano Wanderer alle prese con le ‘sortes germanicae’, ma armato solo del desiderio di camminare e camminare e ancora camminare, lungo un angolo di terra da scoprire in un tempo malinconico, se non perpetuamente tragico; in una “notte del tempo” per la quale l’unico senso della vita era «vivere», e «camminare» il più sublime modo di essere vivi. Mentre insensata, al di sopra del viandante e del suo paesaggio, era la forestiera morte. Siamo in un periodo successivo alla grande guerra, ma sempre avviluppato nell’ombra triste del torpore bellico. E Sebald con il piacere di «guardare» si muove per strade e crocicchi, per la campagna rigogliosa. Ha il puro sguardo che rinviene indizi, ponti sottili verso il passato, amplificazioni di piccole tracce scoperte attraverso il paesaggio, isolate in una rete di impressioni: lo spesso e prolungato tempo dietro alle immagini dei luoghi, sublimato oltre la soglia della riflessione. Ogni suo passo si compie nel modo dell’inquietudine e della pazienza. La sebaldiana ‘metafora del trauma’, paragonabile alla ‘metafora della malattia’ in Petrarca (e in Kafka!), viene a costituire il nòcciolo, cioè l’elemento centrale e più profondo della scrittura. E dalla stessa arriva quel tono etico di malinconica pazienza, di attesa di giungere ad un traguardo, proprio del pellegrino, ma anche e di nuovo del Petrarca, se pensiamo alla sua lenta ascesa al Monte Ventoso. O, in seconda battuta, al viaggio in Terra Santa dal poeta immaginato, ripercorrendo le orme di Omero, Virgilio, Orazio, Lucano…, nell’erudito “Itinerarium”. Un dialogo serrato tra la personalità dello scrittore e i luoghi, la loro progressiva distruzione, ultimo riverbero di una guerra che prosegue con altre forme: meno evidenti, non meno atroci.
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