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Anno edizione: 2015
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Il primo libro di Melville che ho letto in vita mia. La prosa è molto scorrevole, può esser letto tutto d'un fiato. La trama è incentrata sulle impressioni di un datore di lavoro sul suo impiegato scrivano e sulla sua "preferenza a non fare" i compiti richiesti. Mi piace anche l'introduzione al testo, piena di congetture ipotizzate su questo atteggiamento passivista che si trasforma pagina dopo pagina, all'aver preferenza a non vivere la propria vita. Che poi di nascosto cosa facesse questo Bartleby non lo può sapere nessuno! Io penso nella mia opinione modestissima che Melville fosse stanco di una stanchezza proveniente dalla totalità della sua esistenza più che dal fallimento di Moby Dick. In quel "non fare" ha dipinto il volto di tutti noi. Ma chi è che non ha mai sognato di rispondere al proprio capo, alla propria moglie, ai propri figli, anche al proprio animo, di preferire lasciar perdere?! Apatico e attuale più oggi che cent'anni fa.
Negli uffici ad un piano rialzato di Wall Street di un Magistrato della Cancelleria (che è il narratore del racconto), lavorano inizialmente in quattro: il Magistrato della Cancelleria, che dirige i compiti, due copisti ed un fanciullo quale fattorino. I due copisti sono: Turkey: un <<inglese basso e corpulento>> che la mattina lavora egregiamente ma che dopo mezzogiorno sino alle sei di pomeriggio è in continuo affievolimento causando danni come macchie sui documenti importanti <<nell’intinger la penna nel calamaio>>; e Nippers, il secondo copista, un giovanotto di circa venticinque anni <<con un paio di favoriti, un colore olivastro e nel complesso, un aspetto piuttosto piratesco>>. Ginger Nut, invece, il fattorino, è un fanciullo di circa dodici anni, studente di legge, fattorino, e addetto a spolverare e spazzare nel suddetto ufficio. Giunge il giorno in cui l’ufficio è sovraccarico di lavoro tanto che il narratore, ovvero il Magistrato della Cancelleria che era a capo dell’ufficio, è costretto a procurarsi altri aiuti. A rispondere alla inerente inserzione è un uomo dalla <<figura scialba, nella sua dignità, pietosa nella sua rispettabilità, incurabilmente perduta>>: è Bartleby. Il capo lo assume immantinente, convinto che quella persona possa influire in modo benefico <<sull’indole caotica di Turkey>> (il copista) <<nonché su quella impetuosa di Nippers>> (l’altro copista). Il capo lo sistema vicino a sé, nell’ufficio, convinto di poterlo avere sempre a portata di mano, e Bartleby copia impassibile giorno e notte i documenti. Il capo è convinto di averlo sempre a portata di mano, quando dopo qualche giorno dall’assunzione lo chiama per esaminare certi documenti, come sole fare con Turkey e Nippers. Ma è tanta la sorpresa quando questi risponde: <<Avrei preferenza di no>>. Incredulo il capo gli ribadisce con parole diverse, la richiesta e si sente ripetere la medesima risposta. In un secondo momento il capo (narratore) giunge a convincersi che Bartleby non ha quel comportamento per essere insolente, che <<le sue eccentricità sono involontarie>> e si convince che egli gli è utile; ma il suo del capo stato non è sempre a favore di Bartleby: talvolta si sente irritato, e si sente spinto a scontrarsi con lui su qualche nuovo rifiuto. Così un pomeriggio lo aizza proponendogli nuovamente l’esame di alcuni documenti: solita risposta. Gli propone allora, dato che Ginger Nut è assente, di andare all’ufficio postale per vedere se c’è qualcosa per lui: solita riposta. Ha inizio un periodo di combattimento interiore del capo-narratore in cui ogni tanto propone a Bartleby qualche ufficio diverso dal copiare, ma ottiene sempre la solita risposta: <<Avrei preferenza di no>>. Ciononostante Bartleby lavora giorno e notte e non si permette neanche di uscire a desinare, mangiando di tanto in tanto dei biscotti allo zenzero. Una domenica mattina, però, il Magistrato di Cancelleria decide di recarsi alla Trinity Church, <<onde ascoltare un celebrato predicatore>> ma trovandosi da quelle parti <<alquanto in anticipo>> decide di fare una breve passeggiata sino ai suoi uffici. Esistono quattro chiavi dell’ufficio: una l’ha lui, una da una donna che ogni settimana puliva la stanza, una da Turkey e l’altra da non si sa chi. Il narratore-capo si dirige quindi verso il suo ufficio, quando vi giunge inserisce la chiave nella serratura, ma qualcosa la ostruisce: egli si da a chiamare, e qualcuno dall’interno apre: è Bartleby che, mantenendo la porta socchiusa, in déshabillé gli dice che gli dispiace, che al momento è occupato e che <<per adesso>> ha preferenza a non farlo entrare. Soggiunge poi che è forse meglio se il capo se ne va a fare <<un giro o due attorno all’isolato>> ché in quel frattempo probabilmente avrebbe terminato le sue faccende. Il narratore-capo alquanto sorpreso esegue davvero quanto richiesto. Quando torna in ufficio di Bartleby non vi è più traccia ma <<arrotolata sotto il suo (di Bartleby) scrittoio il narratore-capo trova una coperta arrotolata, del lucido ed una spazzola, un bacile di latta con sapone ed un asciugamano sbrindellato ecc. Bartleby si è quindi installato nell’ufficio. Tutto ciò è sconvolgente, ma anche pietoso. Il narratore-capo giunge a convincersi che Bartleby è <<vittima di un disturbo innato ed incurabile>>, e si decide che, se l’indomani Bartleby non avesse risposto a certe sue domande, lo avrebbe liquidato per sempre con un biglietto da venti dollari. Il mattino dopo difatti Bartleby viene interrogato ma, come si può bene immaginare, non risponde o risponde <<avrei preferenza di no>>. Il narratore-capo è combattuto, ma alla fine cerca di fare ragionare Bartleby ottenendo da egli risposte circostanziali ed intagliate sul modello precedente. Vi sono screzi tra i colleghi e Bartleby. Ora, l’espressione <<preferenza>> viene utilizzata inconsciamente in più occasioni dalle persone che circondano Bartleby tanto che il narratore-capo si convince che quell’uomo sta <<contagiandoli>>. Il giorno dopo Bartleby rimane per tutto il tempo in piedi dinnanzi la finestra, davanti al muro cieco, e quando il capo gli domanda perché non scrivesse Bartleby risponde che non vuole scrivere più. <<E per qual ragione?>> <<Non capite da voi la ragione?>> risponde Bartleby. Il capo lo osserva e ne rimane commosso, convincendosi che il fatto di avere lavorato ininterrottamente abbia causato a Bartleby disturbi agli occhi, perciò lo sostiene consigliandogli di astenersi per un certo periodo dallo scrivere. Trascorrono altri giorni e Bartleby sta sempre nello stesso punto dell’ufficio, fermo, e quando il capo gliene chiede conto Bartleby risponde che ha smesso per sempre di copiare. Però rimane installato negli uffici. Il seguito del racconto lo lascio a voi, anche perché è quasi alla fin, anche se la sensazione della durata di tempo della “tragedia” viene protratta per lungo tempo. Nessuno si sa spiegare il comportamento di Bartleby che diventa sempre più chiuso e evasivo nelle risposte e che, così facendo si preclude ogni possibilità. Melville riscuote un grande successo con questo racconto che viene scritto dopo il fallimento di Moby Dick, letterati, giornalisti e alcuni autori si lanciano successivamente nelle ipotesi più azzardate riguardo il senso stesso del racconto, ma io credo che ci sia soltanto una spiegazione ed è la prima interpretazione di Bartleby in chiave biografica: è quella di Raymond Weaver che vede adombrati nella vicenda dello scrivano l’insuccesso letterario e il suo relativo silenzio. Riguardo alle molte interpretazioni ritengo che più il tempo passa più si deforma il punto di vista, forse tale deformazione non è altro che un “modellamento”, ma personalmente tra i tanti pareri che la Feltrinelli ha post-pubblicato nell’omonimo libro solo il primo ha riscontrato la mia condivisione, è anche vero che bisogna pur dire qualcosa di diverso.
Un piccolo grande capolavoro.
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