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Anno edizione: 2016
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Ricevuto questo libro in regalo, l'ho apprezzato moltissimo ed è stata una continua sorpresa sfogliarlo e leggerlo. Maggiani racconta la propria infanzia trascorsa in campagna con la famiglia e mette su un vero e proprio dizionario della natura, associando a ogni animale, pianta o agente atmosferico una piccola storia vissuta, un ricordo di tanti anni prima, un aneddoto struggente o tenero. Le bellissime illustrazioni di Folì impreziosiscono il tutto e catapultano in un vortice di colori e di forme, grazie a cui il lettore si sente sempre più vicino e coinvolto agli episodi descritti da Maggiani. Un inno vero e proprio alla vita, nella sua forma più semplice e più dolce, un canto alla natura e alla vita in comunione con quest'ultima, che però non dimentica i cieli neri, le brutte stagioni e le zecche assassine. Una bellissima scoperta, quindi.
Maurizio Maggiani è uno scrittore ligure. Uno dei più importanti scrittori italiani contemporanei. Ligure come Eugenio Montale. Attratto dalla terra e dalle cose umili come il poeta. E come Montale, tanto più alta si fa la sua poesia, tanto più alto il suo pensiero, quanto più vicine alla terra, al mare, al suolo, sono le storie che ci racconta. Come in questo suo ultimo libro La zecca e la rosa: Vivario di un naturalista domestico. La zecca e la rosa è un libro di racconti, una raccolta di brevi riflessioni sulle cose quotidiane. Un libro di quadri dipinti con poche e vivide pennellate. Tele su cui è impressa la nostra contemporanea quotidianità. Maggiani non è a suo agio fra bossi ligustri o acanti, non riesce a farci smarrire in immense storie d’amore, o in epici racconti fantastici. No, lui preferisce le albicocche, i fichi. Preferisce raccontarci delle foglie morte, delle formiche, della brina. Farci innamorare di papaveri, rane, rose, fichi e cozze. Maggiani, con La zecca e la rosa, ci invita a disconnetterci dagli stimoli esterni contemporanei. Ci invita ad una scommessa: il silenzio, la contemplazione. Per creare un attimo di vuoto mediatico affinché il tempo si fermi, e ciò che ci circonda disveli i suoi ameni segreti. Ci accorgiamo, così, che «una foglia morta, caduta da un albero di gelso, è una porzione di irraggiungibile, ultraumana, bellezza». Scopriamo quanto buone siano le fave con due grani di sale. «Il profumo di salmastro vivo morente del limone su di una cozza». O la brina, quella brina che raspiamo imprecando (perché è tardi) la mattina dal parabrezza, «strepitoso lavoro di decoro molecolare». La prosa poetica de La zecca e la rosa Centocinquantasei pagine, centocinquantasei coccole di parole. Un piccolo almanacco delle creature come i ghiri, «che se ne vanno verso l’inverno in brodo di giuggiole. E non fosse per loro, noi che crediamo ai marziani, non avremmo mai pensato che ci si potesse davvero sbrodolare di giuggiole». O come le ciliegie, le ciliegie su un albero, «frutto al di là di ogni principio di cautela, ben oltre il calcolo del rischio». Un almanacco delle stagioni, come l’inverno, stagione non ancora abolita, «stagione del giacere, dell’improdurre, dell’attendere, dell’alienarsi del di più». Componimenti di pura poesia. Poesia in porsa. Versi parlati, capaci di farci raggiungere il punto fermo dell’esistenza umana, così potenti da penetrare l’arcano significato delle piccole cose. Parole vibranti, in grado di condurci là dove l’Essere stesso si disvela. Di infonderci il coraggio di chiedere il senso della vita alle cose della Terra. Coraggio per chiedere perché, nonostante tutto, permaniamo nell’esistenza. Perché, pur trovandoci sull’orlo, non sprofondiamo nel baratro del Nulla. Parole nette, accecanti come il sole in una radura. Un’interminabile e immensa distesa di luce. Lampi di un disvelamento estatico. Fino a poter intravedere l’ultimo capo dell’aggrovigliata matassa della vita. E poi, tutto finisce. Il cellulare squilla. L’attimo svanisce. Il tempo è trascorso, l’istante svanito. Il libro, richiuso.
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