Compositore.
Gli esordi. Suo padre, Giuseppe Antonio, «pubblico trombetta» (banditore) del comune di Pesaro, integrava i guadagni suonando il corno nelle manifestazioni teatrali e nelle pubbliche accademie; sua madre, Anna Guidarini, era una cantante che svolse una breve carriera nei teatri marchigiani e a Bologna. Nel 1802 a Lugo, dove la famiglia si era trasferita, R. poté studiare in casa dei fratelli Luigi e Giuseppe Malerbi. Fu quest'ultimo che gli fece conoscere, con ogni probabilità, lavori di Mozart e Haydn, conoscenza testimoniata dalle sei Sonate a quattro per violini, violoncello e contrabbasso, scritte all'età di dodici anni, nel 1804, quando R. non aveva preso, secondo le sue stesse parole, alcuna «lezione di accompagnamento». Non sembra dunque che quando, nel 1806 (anno in cui scrisse la sua prima opera Demetrio e Polibio, rappresentata nel 1812), entrò nel liceo musicale di Bologna, R. avesse molto da aggiungere alla sua formazione. Qui comunque completò gli studi sotto la guida di padre Mattei; uscendo da quella scuola, era in grado di suonare la viola e altri strumenti ad arco, il cembalo, il pianoforte, e si era perfezionato anche nel canto (della sua abilità come cantante R. darà prova anche da adulto). L'irruzione di R. nel campo teatrale fu folgorante. Dal 1810, anno del suo esordio al San Moisè di Venezia con La cambiale di matrimonio, al 1823, anno in cui chiuse la fase italiana della sua carriera, R. fece rappresentare oltre 30 opere tra buffe, serie e semiserie, dominando le scene italiane senza rivali. Nella primissima fase sono numerosi i lavori comici: dopo La cambiale di matrimonio vennero L'equivoco stravagante (1811), L'inganno felice, La scala di seta, La pietra del paragone (con la quale esordì alla Scala), L'occasione fa il ladro (tutte del 1812), Il signor Bruschino (1813). Di fronte a questo grande numero di opere buffe, un'unica opera seria: Ciro in Babilonia (1812), oltre alla rappresentazione del Demetrio. Non bisogna ravvisare una scelta in questa preminenza: per un esordiente, era relativamente più facile ottenere scritture per opere comiche o farse (secondo l'accezione dell'epoca, opere in un atto). Più in generale, la crisi dell'opera seria, malgrado la presenza di compositori come Mayr, aveva fatto sì che nei repertori dei teatri, anche i maggiori, le opere buffe avessero più spazio che le serie. In questa prima fase, a R. non fu dato compiere alcuna rivoluzione formale. Tuttavia, alla straordinaria freschezza di inventiva, caratteristica che conquistò subito il pubblico, si univa in lui un rigore formale affatto insolito per l'epoca e per un esordiente. Già negli anni del liceo, a R. era stato affibbiato, non a caso, il soprannome di «tedeschino» per la cura che metteva nell'orchestrazione e per l'attenzione ai particolari armonici. Durante le prove della Cambiale, R. fu costretto, secondo un aneddoto che ha basi di verità, a rivedere la partitura, giudicata troppo astrusa. E nel Ciro in Babilonia, dove al compositore fu concessa maggiore libertà, abbondano i passi concertanti e le arditezze vocali e stilistiche. Dalla tradizione settecentesca R. ereditava dunque il concetto di alto artigianato (che conserverà per tutta la vita), sposandolo alla conoscenza della musica dei paesi di lingua tedesca.
I grandi capolavori comici. Nel 1813 iniziò per R., appena ventenne, la fase della maturità artistica. In quell'anno produsse due capolavori, nel genere serio, Tancredi, e in quello comico, L'Italiana in Algeri. Quest'ultima dimostra ormai una totale padronanza del genere buffo. A questo capolavoro R. ne fece seguire, in pochi anni, altri tre: Il Turco in Italia (1814), Il barbiere di Siviglia (1816), La Cenerentola (1817). Con quest'ultima (preceduta di pochi mesi da La Gazzetta) R. si congedò praticamente, nel gennaio del 1817, dall'opera buffa (anche se nel 1818 scriverà la farsa Adina, con pochi pezzi originali, rappresentata solo nel 1826). Le quattro opere citate costituiscono la summa e la conclusione ideale della precedente storia dell'opera buffa: una conclusione inserita nella tradizione italiana, e dunque diversa e attardata rispetto a quella che ne aveva dato Mozart. R. dilata le strutture settecentesche, conferendo ai lavori comici un'architettura imponente. La divisione è in due atti, il primo dei quali, notevolmente più ampio, si chiude con un grandioso finale che occupa quasi un terzo dell'atto stesso. Nel finale primo R. fissa l'acme formale della partitura e quello dell'intreccio, che vi raggiunge la massima complicazione. Il secondo atto porta alla liberazione e allo scioglimento. Tema fondamentale dell'opera buffa rossiniana è l'inadeguatezza dell'uomo di fronte agli accadimenti, agli imbrogli in cui si trova coinvolto al di fuori della sua volontà. La sostanziale sfiducia nelle possibilità dell'uomo e una rara introspezione dell'animo umano (solo Mozart può essere paragonato a R. in questo campo) danno all'opera buffa rossiniana quel respiro universale che i precedenti esemplari del genere, rimasti spesso incagliati nella farsa e nella satira di costume, avevano invano perseguito e solo raramente avvicinato. Anche le aperture verso la nuova società in formazione (rappresentate per es. da Figaro nel Barbiere) appaiono sottoposte alla stessa corrosione con la quale R. tratta i rappresentanti del vecchio mondo che scompare (Don Bartolo, Don Basilio, Don Magnifico). Il cinismo di Figaro, tutto teso a una efficienza mossa dal solo meccanismo economico, contiene già un giudizio negativo in cui si può intravedere l'atteggiamento che R. assumerà nell'epoca del cosiddetto silenzio.
Le opere serie. Con il Tancredi R. aveva fatto un primo tentativo di ridare vita al vecchio filone dell'opera seria settecentesca. In effetti, nonostante l'immagine di R. stratificatasi nel corso dei decenni successivi al suo ritiro, è certo che egli agì di preferenza nel campo dell'opera seria piuttosto che in quello dell'opera buffa. Dal Tancredi in poi dominano largamente nella sua produzione le opere serie, scritte soprattutto per Napoli, dove era stato chiamato dal Barbaja con l'incarico di dirigere il San Carlo e gli altri teatri che l'impresario gestiva, e dove rimase dal 1815 al 1822. È però vero che in questo campo il suo sguardo restò rivolto al passato. Si veda, innanzitutto, la scrittura vocale: si è molto parlato di riforma rossiniana al riguardo: essa partirebbe dall'Aureliano in Palmira (1813) e consisterebbe nell'aver scritto per esteso le fioriture, che fino ad allora venivano lasciate all'arbitrio dei cantanti. Ma tale riforma non fece, in realtà, che restaurare lo stile belcantistico settecentesco. La stessa presenza di un contralto come eroe maschile (ravvisabile in molte opere serie del periodo italiano) testimonia della nostalgia per l'opera settecentesca, in un momento in cui i castrati andavano quasi scomparendo. Inoltre, per quanto alcuni tentativi di allargare e superare la struttura del pezzo chiuso siano avvertibili in Otello, in Maometto II e altrove, non vi è dubbio che R. predilesse il tipo di opera seria governato da una rigida suddivisione interna sia dei pezzi che dei sentimenti o affetti, di volta in volta affidati ai vari personaggi, ai vari tipi di arie, a situazioni sceniche ricorrenti. Anche nell'opera seria, tuttavia, il vecchio meccanismo è perfezionato e arricchito da sorvegliatissime aperture alle innovazioni romantiche. Tutti i tentativi di allargare i confini dell'opera seria compiuti da R. durante il periodo napoletano, iniziato con l'Elisabetta regina d'Inghilterra (1815) e proseguito con Otello (1816), Armida (1817), Mosè in Egitto (1818), Ricciardo e Zoraide (1818), Ermione (1819), La donna del lago (1819), Maometto II (1820), Zelmira (1822), mostrano comunque che il rinnovamento passa attraverso la sensibilità settecentesca, anche laddove (come nella Donna del lago, tratta da Walter Scott) le suggestioni romantiche sono più avvertibili (e più feconde per il futuro teatro di Bellini e Donizetti). Nel 1823 R. chiuse la sua carriera italiana (dopo aver dato alcuni melodrammi anche nel genere semiserio, coronati dalla Gazza ladra del 1817) con Semiramide, opera di superba perfezione formale che costituisce per altro il portato estremo della restaurazione settecentesca da lui perseguita. Qui la forma chiusa e il bel canto tornano a trionfare e a dominare senza alcuna remora o contrasto.
Il trasferimento a parigi. Dopo Semiramide (il contratto con Barbaja si era intanto concluso, e R. aveva sposato nel 1822 la cantante Isabella Colbran) non era possibile proseguire senza un rinnovamento totale. Tale rinnovamento R. tentò fuori d'Italia. Un soggiorno trionfale a Vienna (1822) gli aveva permesso di valutare la sua popolarità all'estero. L'Inghilterra fu il primo paese che lo ospitò, dal dicembre 1823 alla fine dell'anno seguente. Fallito il teatro che gli aveva commissionato un'opera, R. lasciò l'Inghilterra, dove pure aveva fatto lauti guadagni, e si fermò a Parigi, dove rimase per tutto il resto della vita, sia pure con ampie parentesi di soggiorno in Italia. A contatto con una situazione artistica assai diversa da quella italiana, R. vi si adattò con estrema prudenza. In Francia il romanticismo aveva ormai preso piede, e la borghesia era in grado di guidare la vita artistica sia attraverso le direzioni dei teatri, sia attraverso i canali finanziari e la stampa. Un primo lavoro, la cantata scenica Il viaggio a Reims, scritta nel 1825 per l'incoronazione di Carlo x, fu ritirata dopo la prima. R. presentò poi al pubblico due lavori del periodo napoletano profondamente rimaneggiati: Maometto II divenne Le siège de Corinthe (L'assedio di Corinto, 1826) e Mosè in Egitto si trasformò in Moïse et Pharaon (1827). In questi due lavori, la scrittura vocale viene modificata grazie all'eliminazione dei passi più scopertamente belcantistici, mentre si nota un approfondimento drammatico in direzione del romanticismo e, ancor più, un allargamento dell'impianto a favore di quel gusto francese per gli spettacoli di ampie proporzioni che darà vita in quegli anni al grandopéra. Nel 1828 andò in scena Le comte Ory, prima opera completamente francese, nella quale R. utilizzò parte della musica scritta per Il viaggio a Reims. Con questo melodramma giocoso, del tutto diverso dall'opera buffa italiana, R. diede un capolavoro di inquietante modernità, pieno di sottili allusioni sensuali e caratterizzato da un sorprendente sfruttamento della lingua francese. L'anno seguente andò in scena il tanto atteso Guillaume Tell (Guglielmo Tell), che rappresenta la punta estrema dell'adeguamento di R. al nuovo. Il Tell, grand-opéra in quattro atti, accoglie alcuni portati del romanticismo: tema patriottico (per quanto generico e filtrato attraverso il gusto della borghesia francese), viva presenza della natura (resa con una tavolozza orchestrale nuova per R.), senso dell'ineluttabilità e dell'impossibile nella vicenda dell'amore tra Matilde e Arnoldo (tema che sarà costante nel teatro musicale italiano posteriore). L'architettura possente dimostra tuttavia che R. non ha rinunciato alla sua fondamentale concezione classica del teatro. Accolta all'inizio con stima, ma senza eccessivi entusiasmi, la nuova opera finì per costituire una specie di testo sacro per il teatro successivo: un classico, appunto.
Q gli anni del «silenzio». Da quel momento, ancor giovane e nel colmo della gloria, R. abbandonò il teatro. La decisione, maturata attraverso varie vicende biografiche, fu determinata anche dall'impossibilità di andare oltre sulla strada dell'assimilazione delle nuove correnti artistiche. In questo sta soprattutto il senso del cosiddetto silenzio di R., che in realtà fu un periodo ricco di momenti di operosità privata e segreta. Nel 1831 R. fu colpito da una grave forma di esaurimento nervoso. I rapporti con la Colbran si erano ormai deteriorati, ed egli trovò in Olimpie Pélissier, incontrata nel 1832, la donna disposta a prendersi cura materna della sua salute (la sposerà nel 1845, dopo la morte della Colbran). Dopo questa fase della sua malattia R. scrisse la cantata per voce e pianoforte Giovanna d'Arco (che restò tra le sue carte) e le Soirées musicales (pure per voce e pianoforte). Intraprese anche la composizione dello Stabat Mater, ma dopo averne scritto sei numeri incaricò Giovanni Tadolini di completarlo. Nei momenti concessigli dalle fasi alterne della sua malattia, R. scrisse un gran numero di composizioni, che raccoglierà egli stesso, con il titolo di Péchés de vieillesse, in 14 fascicoli. Vi figurano musiche vocali, molti pezzi per pianoforte, musica da camera per altri strumenti e per coro. In queste composizioni (non destinate né alla pubblicazione, né alla pubblica esecuzione, ma in gran parte eseguite privatamente nel salotto parigino di R.) convivono vari momenti psicologici: nostalgia per il passato, tentativo (non privo di ironia e di spirito eversivo) di adeguarsi al presente (rifacendo magari il verso alla produzione corrente, compresa quella di Schumann o di Chopin), visione negativa del futuro. Tali componenti rendono difficile cogliere, anche in sede esecutiva, il vero significato di questa vasta produzione. Essa, a parte il valore intrinseco di moltissime pagine, prepara comunque l'ultimo grande capolavoro di R. Dopo aver ripreso e completato lo Stabat Mater del 1841, R. scrisse nel 1863 la Petite messe solennelle. Destinata a dodici cantanti (di cui quattro solisti), due pianoforti e armonium (R. la orchestrò senza entusiasmo nel 1867, per evitare che lo facessero altri), la Petite messe supera molti dei problemi che R. si era posto negli anni del silenzio. Le soluzioni, audacissime, mostrano una nuova concezione timbrica, del suono, che anticipa direttamenre quella del Novecento scavalcando quell'esperienza romantica alla quale R. non aveva mai potuto adeguarsi completamente. La morte colse R. nella sua villa di Passy. Nel 1887 la sua salma fu traslata in S. Croce a Firenze.
Le opere minori e l'immagine critica. Oltre alle opere citate, la produzione di R. comprende, in campo teatrale, Sigismondo (1814), Torvaldo e Dorliska (1815), Adelaide di Borgogna (1817), Eduardo e Cristina (1819), Bianca e Falliero (1819), Matilde di Shabran (1821). Vanno inoltre ricordate le cantate Le nozze di Teti e di Peleo (1816), La riconoscenza (1821) ecc.; varia musica sacra, fra cui la Messa di gloria (Napoli, 1820), altre messe giovanili, cori, pezzi liturgici ecc.; le musiche di scena per l'Edipo a Colono di Sofocle nella traduzione di G. Giusti, e diversa musica vocale, strumentale e da camera (oltre a quella raccolta nelle Soirées musicales e nei Péchés de vieillesse). R. ha inoltre lasciato una raccolta di studi vocali ( Gorgheggi e solfeggi) e numerose varianti vocali per allievi e cantanti. Già durante la vita, e ancor più dopo la morte, la figura di R. subì una deformazione che alterò sostanzialmente tanto la sua figura umana quanto la portata della sua opera. Uscita dal repertorio la maggior parte dei suoi lavori, l'immagine di un R. faceto e incapace di espressione drammatica, almeno fino al Tell, venne codificata da biografi compiaciuti e da una critica angusta e disinformata. La riscoperta dell'autentico messaggio di R. e la rivalutazione della sua modernità iniziarono solo nel Novecento e sono tuttora in corso con continue «riscoperte» e revivals soprattutto delle opere serie (Il viaggio a Reims, Semiramide, Elisabetta d'Inghilterra). Nel contesto della storia del teatro musicale, la vicenda artistica rossiniana sembra sempre più destinata a rappresentare l'esperienza conclusiva del Settecento e del periodo illuminista e, insieme, l'anticipazione di concezioni nettamente postromantiche.