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Anno edizione: 2017
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Pubblicato nel 1963, V. (opera prima di Thomas Pynchon) è considerato unanimemente il Manifesto del post-modernismo americano. Vincitore del “First Novel Award”, V. è il romanzo che inserì, ad appena ventisei anni, Thomas Pynchon nell’Olimpo dei Giganti della letteratura in lingua inglese (e non), contribuendo, inoltre, a portare quel suo stile labirintico e imbevuto di ampie digressioni di vario genere all’attenzione della critica mondiale. V. è un romanzo universale. Universale perché al suo interno roteano e oscillano avanti e indietro come dei pianeti e come degli yo-yo decine e decine di personaggi (importanti o quasi del tutto irrilevanti) ma che contribuiscono, nell’insieme, ad alimentare nella mente del lettore una misteriosa (ma potente) curiosità, intrisa, tuttavia, di un placido smarrimento (completamente inconsapevole, magico) che costringe chi legge a proseguire nella lettura, a vestire i panni di Herbert Stencil (che insieme all’amico Benny Profane sono i due protagonisti del romanzo), a cercare la chiave della soluzione, ad immergersi sempre di più in quel caotico (eppure, così tremendamente ordinato) universo apocalittico popolato di creature assurde e spietate eppure tragicamente reali e attuali in ogni epoca.
Da qualche parte ho letto che Kafka, quando leggeva i suoi racconti, se la rideva alla grande. Io mi immagino i suoi amici. Dovevano pensare – Questo è matto perso. Io, alla prima lettura dei racconti di Kafka, rabbrividivo. Ecco, Pynchon è come Kafka: deve ridere, deve tenersi la pancia a due mani, quando legge ai suoi amici i suoi romanzi, perché Pynchon è uno così: è uno che ti legge quello che scrive. Di un goliardismo irredento. Da qualche altra parte ho letto – ma può darsi che mi stia inventando tutto – che Lucrezio abbia detto che non esiste arte più potente della scrittura. Puoi non sapere nulla di navi e di capitani di nave ma ti basta scrivere – Il capitano portò la nave al largo; per dare vita ad entrambi, una vita realistica, meglio: verosimile, che è una cosa più potente, perché più ambigua ma non meno sostanziale, di Realtà&Verità combinate insieme. Lucrezio doveva dire queste cose con negli occhi la stessa luce che aveva Kafka quando leggeva i suoi racconti. Sospetto che questa luce covi anche negli occhi di Pynchon.
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