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Le prime pagine del romanzo
La sporcizia dei viaggi Gilgamesh lavò dai capelli, le vesti lorde gettò via, indossò abiti nuovi e puliti, se li avvolse intorno, stretto al corpo un mantello con le frange, legato con la sua fascia lucente.
La cittadina prende il nome dal fiume. La corrente, rapida e pericolosa, prorompe con allegria convulsa, trascinandosi dietro pezzi di legno e ciocchi di ghiaccio. Nei piccoli anfratti dove l’acqua rimane intrappolata le pietre, blu, nere e viola, risplendono dal letto del fiume lisciate e arrotondate a perfezione, e sembra di vedere una covata di grosse uova in un cesto d’acqua. Il rumore è assordante.
Dai ramoscelli piú esili degli alberi di Folk Park sospesi sul fiume stilla con soffice sussurro il ghiaccio al disgelo, e la scultura di cerchi metallici, un pugno nell’occhio a detta di molti abitanti del luogo, è impreziosita da una collana di ghiaccioli scompigliati, bluastri nella notte gelata. Se si fosse addentrato di piú, lo straniero avrebbe visto le bandiere di varie nazioni, a indicare quanto il posto sia diventato cosmopolita e, in ossequio alla nostalgia, ci sono un vecchio macchinario agricolo, una mietitrebbia, la ruota di un mulino e la copia di un cottage irlandese risalenti a quando i contadini abitavano nei tuguri e per sopravvivere mangiavano le ortiche.
Si sofferma sulla sponda del fiume, come ipnotizzato dall’acqua.
Barbuto, un lungo cappotto scuro e i guanti bianchi, rimane sullo stretto ponticello a rimirare la corrente impetuosa, poi si guarda attorno, l’aria un po’ smarrita, la sua presenza l’unica curiosità nella monotonia di una sera invernale in un luogo gelido e sperduto che si spaccia per cittadina e di nome fa Cloonoila.
Molto tempo dopo qualcuno avrebbe riferito di strani fenomeni avvenuti quella stessa sera d’inverno; cani che abbaiavano all’impazzata, come se ci fosse il temporale, il verso dell’usignolo di cui non avevano mai udito il canto né i gorgheggi cosí a ovest. La figlia di una famiglia di zingari, che abitava in una roulotte vicino al mare, giurò di aver visto lo spirito maligno di quell’uomo entrare dalla finestra e puntarle contro un’accetta.
Dara, un giovanotto con una cresta di capelli impomatata di gel, s’illumina sentendo qualcuno smuovere esitante la maniglia della porta e pensa: «Un cliente, era ora». Quelle cacchio di leggi sulla guida in stato d’ebbrezza sono una iattura per gli affari, scapoli e ammogliati che abitano su in campagna si scolerebbero volentieri un paio di pinte, ma ci vanno cauti perché i vigili gli contano i sorsi, privando la vita delle gioie piú elementari.
– Buonasera, – dice quando apre la porta e si affaccia fuori commentando il tempo da lupi, poi i due, simulando un abbozzo di cameratismo, restano sulla soglia a riempirsi i polmoni da veri uomini.
Dara sentí il bisogno di genuflettersi quando guardò meglio la figura, una specie di santone con la barba e i capelli bianchi e un lungo cappotto nero. Aveva i guanti bianchi, che si sfilò lentamente, un dito per volta, guardandosi attorno a disagio, come se si sentisse osservato. Dara lo invitò ad accomodarsi sulla poltrona buona di cuoio vicino al fuoco, e lanciò una pila di bricchette e una punta di zucchero per attizzare le fiamme. Era il minimo che potesse fare per uno straniero. Cercava una sistemazione e Dara gli disse che avrebbe fatto mente locale. Gli prepara un whisky bollente con miele e chiodi di garofano e come sottofondo mette i Pogues nella versione piú scatenata. Poi accende qualche vecchio mozzicone di candela per creare l’«atmosfera». Lo straniero rifiuta il whisky e chiede se invece non sia possibile avere un brandy, che fa girare e rigirare nel grosso bicchiere e poi beve senza una parola. Dara, che ha la lingua sciolta per natura, snocciola tutta la sua cronistoria, tanto per fare due chiacchiere: – Mia madre una santa donna, mio padre un fanatico delle associazioni giovanili ma contrarissimo a droghe e alcol… una nipotina che è la luce dei miei occhi, ha appena cominciato la scuola, ha una nuova amichetta che si chiama Jennifer… Lavoro in due bar, qui al TJ e nel fine settimana al Castle… ci vengono i calciatori, al Castle, dei veri signori… mi sono fatto la foto con loro, ho letto l’autobiografia di Pelé, roba tosta… ho in programma una puntatina in Inghilterra, al Wembley, per un’amichevole contro l’Inghilterra… abbiamo prenotato il volo, siamo in sei, dormiamo in un ostello, sarà uno spasso. Vado in palestra, faccio un po’ di cardio e la panca, il mio lavoro mi piace da impazzire… il mio motto è: «Se fallisci nei preparativi… preparati a fallire»… Non tocco un goccio sul lavoro, ma quando esco con gli amici una bella pinta di Guinness non me la leva nessuno, vado pazzo per il calcio, mi piacciono pure i film… ne ho visto uno strepitoso con Christian Bale, ah, lui fa il Cavaliere oscuro e via dicendo, ma non è che gli horror mi sconfinferano poi tanto.
L’ospite si è un po’ animato, si guarda attorno e sembra incuriosito dalle cianfrusaglie negli angolini e negli anfratti, roba che Mona, la proprietaria del locale, ha collezionato negli anni: bottiglie di birra chiara e scura, pacchetti di sigari e sigarette con i caratteri ornamentali, un mini barile di ceramica con il rubinetto d’oro e il nome della regione spagnola famosa per lo sherry da cui proviene e, in memoria di un giorno triste, un cartello di legno con sopra inciso: «Pericolo: letame profondo». Il cimelio, spiegò Dara, era per commemorare un contadino di Killamuck caduto nella sua fossa del letame una sera buia, seguito a ruota dai due figli andati per salvarlo e poi dal cane Che, tutti annegati.
– Che brutta sciagura, che brutta storia, – dice.
Si lambicca il cervello, si gratta la testa con la matita e annota i nomi di vari b&b, dispiaciuto perché molti sono chiusi in quella stagione. Provò al Diarmuid, dopodiché chiamò il Grainne ma non rispose nessuno, mentre in altri tre la segreteria telefonica disse chiaro e tondo di non lasciare messaggi. Poi gli venne in mente Fifi, che dopo l’Australia era un po’ svampita, solo che non era in casa, Dara disse che con ogni probabilità era a qualche seduta di meditazione o di canto, una fanatica della New Age con una passione per il prana, il karma e compagnia bella. Non rimane che il Country House Hotel, anche se sapeva che era chiuso e che marito e moglie stavano per andare in India a fare trekking. Rispose Iseult, la moglie. – Per carità. Non se ne parla –. Ma la insapona un po’ e lei s’ammorbidisce: una notte, non di piú. La conosceva, lui. Andava da loro a fare le consegne, vino e pesce fresco, incluse le aragoste della zona intorno al molo. C’era un viale d’accesso chilometrico, tutto curve e giravolte, ombreggiato da vecchi alberi enormi, un parco di cervi su un lato e il loro bravo fiumiciattolo, fratello del fiume cittadino, un ponte a schiena d’asino e poi ancora il viale, su su fino al prato davanti all’albergo dove i pavoni incedevano impettiti e facevano i loro bisogni. Una volta, scendendo dal furgone, ha visto per caso una meraviglia, il pavone che fa la ruota, come una fisarmonica, il verde e il blu intensi del vetro colorato, uno spettacolo, davvero. Pare che certi ospiti dell’albergo si siano lamentati delle urla che lanciano i pavoni di notte, hanno detto che sono strane come quelle di un neonato che si sente male anche se, aggiunse, a volte la gente si mette in testa idee stravaganti.