Le prime frasi
LA SPERANZA E LA POESIA
Bruno Arpaia Vorrei iniziare questa nuova conversazione con una frase, secondo me straordinaria, di Elsa Morante "Una delle possibili definizioni giuste di scrittore sarebbe addirittura la seguente: un uomo a cui sta a cuore tutto quanto accade, fuorché la letteratura". Una definizione che penso aderisca perfettamente al tuo modo di intendere la letteratura e la vita.
Luis Sepúlveda Sì, perché per me uno scrittore è un uomo o una donna che è a suo agio
dentro la vita, nelle cose più apparentemente insignificanti, e proprio per questo scrittore. Queste parole della Morante hanno forti reminiscenze di Walt Whitman, quando scriveva che nulla di ciò che accadeva gli era estraneo, nessun dolore e nessun piacere gli erano sconosciuti, ogni dubbio gli apparteneva. Ciò che meno gli interessava era la coscienza di essere un letterato perché gli faceva perdere tempo prezioso per appropriarsi di altre cose. Le parole di Whitman e della Morante sono un manifesto contro l'assurda sacralizzazione dello scrittore, considerato come una creatura da scrivania che vive totalmente di letteratura e per la letteratura. Contesto l'esistenza di quel limbo dello scrittore o dell'intellettuale che gli permette di essere lontano dagli altri e tuttavia di esprimere opinioni. Anche se mi piace la letteratura, anche se amo moltissimo scrivere, ci sono momenti in cui preferisco passeggiare con i miei figli, fare l'amore, pescare, giocare con il mio cane, cucinare perché vengono amici a cena. Non sacralizzo nulla e man che meno la letteratura, che pure mi riserva momenti felicissimi.
B.A. Del resto, per la tua e la mia generazione, molto vicine temporalmente, cresciute a cavallo tra gli anni Sessanta e i Settanta, scoprire il mondo significava scoprire insieme la letteratura, anche se da semplice lettore, e la politica, intesa nel senso più nobile e più ideale. Saranno questi i due temi principali delle nostre conversazioni: due temi accomunati dalla passione per la vita, dall'interesse per gli altri. Per i più giovani, forse, si tratta di un percorso strano, di un apprendistato irripetibile, perciò credo che valga la pena provare a raccontarlo. Tu come e quando ti avvicinasti alla politica?
L.S.. All'inizio del liceo, a Santiago. C'era un ragazzo di un paio d'anni più grande che mi affascinava molto: era il primo della classe, dirigeva il giornalino dell'istituto e aveva sempre un'opinione sicura su tutto. Era comunista. Un giorno mi invitò a partecipare a una manifestazione al Parque Bustamante in cui parlava Neruda. Io ammiravo già Neruda, a volte andavo a sedermi di fronte a casa sua a scrivere poesie in segreto e a guardare i meravigliosi tramonti che si vedevano da quella panchina. Fu a quella manifestazione che si avvicinarono due ragazzi: chiedevano in giro se qualcuno voleva entrare nel partito. Senza pensarci su, alzai la mano e dissi "Io". Mi diedero una tessera da aspirante. Quella vera, quella militante, avrei dovuto guadagnandomela creando la cellula della Gioventù comunista del mio quartiere. Andai in sezione, parlai con i vecchi che mi accolsero molto bene, ma la verità è che non sapevo da dove cominciare. Comprai con i miei risparmi un secchio di vernice bianca e ridipinsi la sede del partito, ma poi? Mi sentivo destinato a cambiare il mondo, però in realtà non sapevo come fare. A quei tempi in sezione arrivava una rivista che si chiamava "Unione Sovietica". C'erano molte foto e articoli sull'avventura spaziale, su Garin e Valentina Terekova e sul progresso scientifico dell'umanità e della patria del socialismo. Allora mi venne in mente di organizzare una mostra sull'Unione Sovietica e il cosmo. Mentre ritagliavo foto e articoli, si avvicinò un ragazzo della mia stessa età, Marcos Leal, un tipo meraviglioso, straordinario. "Che stai facendo?" mi chiese. "Una mostra sull'Unione Sovietica e il cosmo" risposi. Studiava in una scuola professionale, sembrava molto interessato all'aspetto scientifico della mostra, così gli domandai a bruciapelo se voleva entrare nella Gioventù comunista. "Di che si tratta?" domandò. Allora gli recitai il catechismo: si tratta di lottare per l'avvenire, la giustizia sociale e blablablà. "D'accordo" disse lui alla fine della cantilena. Eravamo in due, ora, e la nostra mostra fu un successo, anche perché la sezione del partito era vicino a una fermata del tram. Un posto strategico. Quando pioveva, la gente entrava a frotte a visitarla. Sei mesi dopo eravamo già venti e finalmente mi diedero la tanto desiderata tessera da militante. Diventai il primo segretario politico della cellula della Gioventù comunista Antonio Gramsci. La cosa più strana era che allora la Gioventù pubblicava una rivista che si chiamava "Gente Joven": una rivista comunista, ma fatta in realtà da vecchi anarchici amici di mio nonno. Ci trattavano con grande affetto, ma non rinunciavano a far filtrare messaggi libertari in quelle pagine. Noi distribuivamo la rivista fuori delle fabbriche il venerdì pomeriggio, alla fine del turno, e a me toccava salire su una cassa e fare agitazione mentre la bandiera rossa sventolava alle mie spalle. Un anno dopo, comunque, i "miei" militanti erano diventati quasi cento.