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Idea molto originale per raccontare il primo femminicidio di cui c’è traccia nella storia giuridica italiana: nel 1911, Giulia Trigona, zia materna del celebre scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa, viene uccisa ferocemente in uno squallido albergo vicino alla stazione Termini dal suo amante, il tenente Paternò, al quale aveva concesso un ultimo appuntamento, secondo uno schema che ancora oggi si ripete: le donne abbassano le difese, credono nell’amore come lo vedono gli occhi dei bambini ma vengono annientate proprio da quegli uomini di cui si fidano. Monica Guerritore cerca non tanto di ricostruire la sua storia quanto di immaginare gli ultimi pensieri e le emozioni contrastanti che hanno accompagnato Giulia verso quella stanza in cui troverà la morte, grazie anche all’aiuto di altre figure femminili della letteratura e della storia come Emma Bovary, la Lupa di Verga, Oriana Fallaci, la Carmen di Bizet, tutte donne di cui la stessa Monica Guerritore, attrice teatrale e cinematografica, ha indossato le vesti ed interpretato nell’arco della sua carriera. Ciò nonostante, l’effetto finale è confusionario: storia personale dell’autrice e vicende letterarie si fondono, ma non ne viene fuori una conclusione chiara ed esplicativa del processo di accostamento. Il tentativo è spiegare la storia di Giulia e degli altri femminicidi nell’ottica del racconto femminile nella letteratura e non solo, ma ciò che ne viene fuori è solo un raccontino autobiografico della Guerritore e le sue impressioni sulle protagoniste femminili che lei stessa ha interpretato: un po’ troppo autocelebrativo, finendo per dimenticare la figura da cui si era partiti, la povera Giulia Trigona, di cui finiamo per capirne ancora meno di quanto ne sapevamo all’inizio.
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