Il novecento e gli anni duemila
Dopo la prima guerra mondiale e il tentativo comunista di Béla Kun, nel 1919, il regime conservatore di Horthy favorì il tradizionalismo di Herczeg, le correnti irredentiste, il nazionalismo della rivista «Napkelet» (Oriente, 1923) e le posizioni filorazziste di Dezső Szabó (1879-1945), soffocando la voce del poeta socialista Lajos Kassák (1887-1968). Alla linea occidentalizzante di narratori d’evasione come Lajos Zilahy (1891-1974), Ferenc Körmendi (1900-72) e Mihály Földi (1894-1943) si contrappose l’impegno dei poeti populisti – come Gyulà Illyés (1902-83) e Miklós Radnóti (1909-44) – e proletari, fra i quali spicca la figura di Attila József (1905-37).
Dopo la seconda guerra mondiale, proclamata la repubblica socialista, intorno al famoso critico e filosofo marxista György Lukács (1885-1971) si organizzò la nuova cultura, nel cui ambito la corrente letteraria più significativa è stata quella del «grande realismo» impersonata con autorità da Tibor Déry (1894-1977). In larvata opposizione, tuttavia, continuava nella lirica la corrente formalista, che aveva in Zoltan Jékeli (1913-82) e Sándor Weöres (1913-89) le sue voci più incisive e, nel romanzo, la prosa vivace ed espressionistica di Emil Kolozsvári Grandpierre (1907-92). Sándor Márai (1900-89), le cui opere sono state scoperte in Europa a partire dalla metà degli anni ’90, si distingue come originale figura di romanziere schivo e isolato, acuto osservatore del tramonto del mondo mitteleuropeo.
Nel corso degli anni ’60 si assiste a una ripresa dell’attività di scrittori costretti nel periodo staliniano al silenzio e, insieme, al manifestarsi di nuovi talenti, tra i quali Magda Szabó, connotata da una vena lirico-intimista, F. Santa, Endre Fejes e Dezső Tandori. Tra gli scrittori delle ultime generazioni, spiccano Péter Náda, Péter Esterházy, originale sperimentatore di linguaggi e tecniche narrative, il premio Nobel 2002 Imre Kertész e la sferzante Agota Kristof. Infine, sono da segnalare György Spiró (1946), autore di pièce d’avanguardia, e l’eclettico Péter Zilahy (1970), autore di prose e poesie, fotografo e «art performer».
Dalle origini al settecento
La conversione delle popolazioni ungheresi al cristianesimo (1001) segnò la fine della poesia popolare pagana; per l’intera durata del medioevo la lingua scritta ufficiale fu il latino, introdotto dagli ecclesiastici (soprattutto italiani) che posero le basi della nuova chiesa, mentre il volgare, la cui prima comparsa è testimoniata da un Discorso funebre in 25 versi dell’inizio del sec. XII, fu usato solo per poche versioni di canti religiosi e di leggende agiografiche e per una traduzione parziale delle Sacre Scritture, dovuta a due seguaci di J. Hus (inizio del sec. xv). Durante l’umanesimo, il volgare fu relegato nella letteratura favolistica e satirica popolare. La riforma, impegnata a diffondere il nuovo credo religioso tra il popolo, diede il primo impulso sia alla prosa che al teatro in lingua ungherese; in seguito, l’avanzata dei turchi provocò la capillare diffusione in tutto il paese di cantori itineranti o rapsodi e dei loro componimenti poetici, nei quali le vicende nazionali si intrecciavano a leggende popolari. Operò in questo periodo il primo grande poeta lirico in lingua volgare, Bálint Balassa (1554-94). All’inizio del sec. XVII, si diffusero gli influssi del tardo rinascimento italiano, sia nella prosa sia nella poesia. Fermata l’invasione turca, il rafforzamento dell’aristocrazia magiara nei confronti del potere centrale asburgico favorì presso le piccole corti signorili il fiorire di una letteratura di casta, raffinata e superficiale, in cui si distinse István Gyöngyösi (1629-1704). Nell’Ungheria del primo Settecento la cultura è monopolio degli ecclesiastici e degli aristocratici più legati alla corte austriaca; la letteratura preferisce ancora il latino alla lingua nazionale. I primi accenni di rinnovamento coincidono, intorno alla metà del secolo, con il propagarsi dei fermenti illuministici diffusi da vari gruppi di letterati: i filofrancesi o «gardisti», guidati da György Bessenyei (1747-1811), i classicisti della «Pléiade», i filotedeschi e i nazionalisti-populisti, alla cui guida morale e culturale fu il giacobino Ferenc Kazinczy (1759-1831). La rivoluzione francese e poi il riformismo di Napoleone conquistarono la nobiltà magiara e gli intellettuali, accomunati da un nazionalismo separatista che avrebbe caratterizzato, in seguito, tutto il periodo romantico.
Dal romanticismo alla prima guerra mondiale
Il romanticismo ungherese si organizzò, come movimento, intorno all’almanacco «Aurora», fondato nel 1822 da Károly Kisfaludy (1788-1830). A M. Vörösmarty (1800-55), il primo grande poeta espresso dal movimento, si deve la scoperta e la rivelazione di Sándor Petöfi (1823-49), nella cui poesia si realizza compiutamente l’indirizzo nazional-popolare, continuato poi da János Arany (1817-82) e ripreso da József Katona (1791-1830) nel dramma, da Mór Jókai (1825-1904) nel romanzo storico, da József Eötvös (1813-71) nel romanzo sociale, mentre il pessimismo filosofico e le conquiste del pensiero economico e scientifico dell’Ottocento si riflettono nell’opera di Imre Madách (1823-64). Dopo il «compromesso» del 1867 con l’Austria, lo spirito rivoluzionario si spense nella repressione; il teatro si ridusse a passatempo per un vasto e la poesia predilesse i toni elegiaci, in parallelo o sotto l’influsso della letteratura decadente europea. Una certa vitalità conservò il romanzo, con la produzione della scuola realista (nella quale si distinse ancora Jókai) e naturalista. Il gusto delle nuove generazioni s’andava formando, intanto, sulla lirica simbolista di Endre Ady (1877-1919), che raccolse le migliori forze giovanili intorno alla rivista «Nyugat» (Occidente). A un pubblico borghese si rivolgevano invece scrittori come Ferenc Herczeg (1863-1954) e Ferenc Molnár (1878-1952), creatore di delicate e astratte fantasie teatrali e autore del celeberrimo I ragazzi della via Paal.