(Roma 1698 - Vienna 1782) poeta e drammaturgo italiano.La vita e le opere Figlio di un modesto commerciante, ancora fanciullo rivelò eccezionali doti di poeta improvvisatore. Nel 1712 G.V. Gravina lo prese sotto la sua protezione, sottraendolo alla vita mondana dei salotti romani e portandolo con sé prima a Napoli e poi a Scalea, in Calabria, dove gli venne impartita una severa educazione razionalistica e classicistica sotto la guida del cartesiano G. Caloprese. Tornato a Roma nel 1714, M. (così Gravina aveva grecizzato il cognome Trapassi) prese gli ordini minori e affinò la propria formazione letteraria attraverso assidue letture. Nel 1717 a Napoli usciva la sua prima raccolta di Poesie, comprendente la tragedia Giustino; nel 1718 Gravina moriva, lasciandogli una cospicua eredità. Trasferitosi a Napoli, M. si fece conoscere con alcuni componimenti d’occasione; ma l’anno decisivo della sua carriera fu il 1721, con il successo della cantata Gli orti esperidi, musicata da N. Porpora e interpretata dalla cantante Marianna Bulgarelli, detta la «Romanina», con la quale M. intrecciò una lunga relazione amorosa. Nel 1724 compose il melodramma Didone abbandonata, che gli dette immediata e vastissima popolarità. Da quel momento la vena metastasiana scorre inarrestabile: scrive Siroe (1726), Catone in Utica (1727), Ezio (1728), Semiramide riconosciuta (1729), Alessandro nelle Indie (1729), Artaserse (1730). Nominato poeta cesareo, nel 1730 si stabilisce a Vienna; il decennio successivo rappresenta la sua stagione aurea: risalgono a questo periodo i melodrammi Demetrio (1731), Issipile (1732), Adriano in Siria (1732), Olimpiade (1733), Demofoonte (1733), La clemenza di Tito (1734), Achille in Sciro (1736), Ciro riconosciuto (1736), Temistocle (1736), Zenobia (1740), Attilio Regolo (1740) e la canzonetta La libertà (1733). Successivamente, mentre i gusti letterari cominciano a mutare sotto la spinta delle idee illuministiche e preromantiche, l’arcade e cartesiano M. rifiuta le novità in politica come in letteratura, si chiude su sé stesso e s’impegna a chiarire i fondamenti teorici della sua arte al tramonto: tra il 1745 e il 1773 traduce e annota l’Arte poetica di Orazio, porta a termine l’Estratto dell’«Arte poetica» di Aristotile e considerazioni su la medesima, scrive le Osservazioni sul teatro greco. Compone ancora per il teatro (Il re pastore, 1751; L’eroe cinese, 1752; L’isola disabitata, 1753; Nitteti, 1756; Il trionfo di Clelia, 1762; Romolo ed Ersilia, 1765; Ruggiero, 1771), ma il canto del cigno resta la canzonetta La partenza (1746), che svolge il tema prediletto degli «addii».La «riforma» metastasiana del melodramma Al centro delle riflessioni metastasiane sul teatro agisce l’esigenza di nobilitare e semplificare il genere melodrammatico senza intaccarne le due componenti essenziali: la musicalità e la finzione favolosa. Dotato di un istintivo senso del mélos, M. imposta con estrema lucidità il rapporto tra parola e musica, intuendo che per ridare autonomia alla prima bisogna far scaturire la vibrazione melodica dall’interno del tessuto poetico: di qui la levità aerea della versificazione e il meccanismo preciso che regola l’azione. Quanto al favoloso, esso viene recuperato all’immaginazione arcadica attraverso un processo di alleggerimento e rarefazione; mentre i nuclei sentimentali che sostengono l’intreccio sono graduati in una gamma di emozioni morbide e ambigue. In sostanza il nuovo melodramma eredita da quello barocco tutti gli artifici, le agnizioni, le inverosimiglianze, eppure (quando l’artista è in stato di grazia) tutto assume un’apparenza di naturalezza, perché, proprio nei momenti in cui la «favola» si fa più ardita e improbabile, s’insinua la coscienza dell’illusione e della finzione; i personaggi metastasiani «sanno» di agire come personaggi.Fasi del teatro di Metastasio Musicati da quasi tutti i compositori del suo tempo, i libretti di M. hanno un ruolo determinante nella storia del melodramma. Dopo la Didone, i melodrammi del periodo romano segnano un sicuro progresso: l’elemento patetico e amoroso prevale via via sui velleitari movimenti tragici; la trama si dipana più agevolmente; il linguaggio acquista una nuova elasticità, mantenendosi su un registro medio, fra aulico e comune. Questa bravura fa la maggior prova nei due capolavori viennesi, Olimpiade e Demofoonte, i quali hanno il pregio di chiudere i personaggi in una sfera di moderate e sagge passioni, usando l’elemento eroico con molta parsimonia. Invece dall’Attilio Regolo in poi l’esaltazione dell’eroismo e la problematica dell’«anima bella» invadono il campo, sclerotizzando la struttura scenica con una tematica estranea alla vena di M., il quale negli anni senili riesce a dare il meglio di sé soltanto nelle pagine più abbandonate dell’epistolario, soprattutto in quelle lettere che esprimono la pungente nostalgia della patria lontana, o in quelle altre che scoprono recessi di amarezza e di pessimismo, meditando sulle perfidie e gli inganni del «gran teatro del mondo».