Pierre Corneille è stato un drammaturgo francese. Suo padre era avvocato; sua madre, Marthe le Pesant, era figlia di un podestà. C. studiò presso i gesuiti, poi seguì i corsi di diritto e ottenne il titolo di avvocato; sembra, tuttavia, che non abbia mai esercitato la professione. Ricoprì cariche nella magistratura di Rouen fino al 1650. La sua carriera teatrale iniziò nel 1629 e presto gli attirò i favori e la protezione di Richelieu, che tra l’altro commissionò a lui, a Rotrou, a L’Estoile, a Boisrobert e a Colleret, una commedia a cinque mani di mediocrissima riuscita. Del 1636 è il trionfo del Cid; del 1640 il matrimonio con Marie de Lampérière, da cui nasceranno sei figli; del 1647 l’ingresso all’Académie française, di cui, in seguito, divenne decano. Solo nel 1662 C. si trasferì definitivamente a Parigi; restò tuttavia, sempre, uomo di provincia: La Bruyère riferisce che la sua conversazione era noiosa, che non riuscì mai a eliminare l’accento normanno e che non sapeva recitare i propri versi. Gli ultimi anni di C. furono amareggiati da molti insuccessi; saliva il nuovo astro della tragedia, Racine. Il Tite et Bérénice di C. cadde proprio una settimana dopo il trionfo della Bérénice del rivale. La prima opera teatrale di C. fu Melito o le lettere false (Mélite ou les fausses lettres), rappresentata nella stagione 1629-30 al Théâtre du Marais dalla compagnia del principe d’Orange e interpretata dal celebre Montdory; altre commedie e tragicommedie seguirono, affidate alla stessa compagnia: Clitandro o l’innocenza liberata (Clitandre ou l’innocence délivrée, 1631), La vedova o il traditore tradito (La veuve ou le traître trahi, 1632), La galleria del palazzo o l’amica rivale (La galerie du palais ou l’amie rivale, 1632), La piazza reale o l’innamorato stravagante (La place royale ou l’amoureux extravagant, 1634). Fredda fu l’accoglienza del pubblico alla prima tragedia di C., Medea (Médée, 1635); ancora più fredda quella riservata a L’illusione comica (L’illusion comique, 1636), bizzarro ma interessante esperimento di «commedia nella commedia». A questi due insuccessi seguì, nel 1636, Il Cid (Le Cid), tragedia a lieto fine di argomento spagnolo che raccolse un grande successo, ma subì anche critiche erudite e scolastiche, di cui C. tenne conto nelle opere successive − Orazio (Horace, 1640), Cinna (1641), Poliuto (Polyeucte, 1641-42), La morte di Pompeo (La mort de Pompée, 1642-43) − in cui adottò, sostanzialmente, le forme rigorose della tragedia storica «regolare», cioè tecnicamente conforme ai principi della poetica drammatica normativa elaborata dalla critica del tempo. Del 1644 è un ritorno alla commedia con Il bugiardo (Le menteur), che influenzerà Molière e sarà imitato da Goldoni. Le opere successive avvieranno, secondo il giudizio dei contemporanei, confermato da una tenace tradizione critica, la progressiva decadenza di C. Si tratta di una quindicina di titoli, distribuiti su un arco di una ventina d’anni, sino al 1662, che segnerà per C. la scelta di un definitivo silenzio. Citeremo: Rodoguna (Rodogune), Nicomede (Nicomède), Sertorio (Sertorius), Ottone (Othon), Agesilao (Agésilas), Attila re degli unni (Attila roi des huns), Surena generale dei parti (Suréna général des parthes). La fortuna critica La fama di C. ha resistito ai molti attacchi soprattutto grazie ai quattro capolavori: Il Cid, l’Orazio, il Cinna e il Poliuto. Queste opere, frutto di una sola breve stagione, costituiscono, secondo Ch. Péguy, una sorta di solido geometrico: alla base sarebbero le prime tre, con la loro esaltazione di virtù quali l’onore, il patriottismo, la generosità; al vertice la quarta, dedicata, attraverso la figura di un martire cristiano, alla celebrazione della santità. Sistemazione rigida, che ha il torto di confinare C. nel corneillismo: nella formula, cioè, di una poesia drammatica tutta chiara, senza ombre e trasalimenti, fatta di enunciazioni, proclamazioni, repliche concitate e sferzanti; poesia «della volontà» (Croce) o del libero arbitrio umano, teorizzato dai gesuiti, di cui C. era stato allievo; poesia che trova la propria forma, attraverso l’adozione delle unità aristoteliche, nello sforzo e nella disciplina stilistici, creando l’organismo altamente convenzionale della tragedia classica francese. Sebbene importante nella storia della cultura, quest’immagine di C., tutta tesa all’eroico e qualche volta vittima del ridicolo, sembra in realtà parziale. Il gusto classicista ha costretto C. in limiti troppo stretti e ne ha ingiustamente censurato il lato barocco. La critica recente non solo ha sottolineato gli aspetti romanzeschi e deliranti che, anche nelle opere maggiori, denunciano un temperamento irregolare e fantastico, ma ha soprattutto utilmente esplorato il vasto territorio delle opere meno divulgate. Alcuni studiosi hanno sottolineato la vivacità delle prime commedie, ambientate negli angoli di una Parigi realistica e minuta, rileggendole nella stesura originale, senza le correzioni apportate da C. maturo; altri, come G. Macchia, si sono soffermati sulla produzione più tarda, sottolineando l’alto e lampeggiante patetismo di testi come il Rodogune e il Suréna.