Gertrude Stein è stata una scrittrice statunitense. Di ricca famiglia ebraica di origine tedesca, approdò alla letteratura e all’arte attraverso una formazione di tipo scientifico, avendo studiato psicologia sperimentale con William James e medicina, e in particolare neurologia, alla Johns Hopkins University. A partire dal 1903 si stabilì a Parigi, dove visse, con il fratello Leo e poi con l’inseparabile Alice B. Toklas, fino alla morte, a esclusione di un breve soggiorno negli Stati Uniti nel 1937 per un ciclo di conferenze. Nella sua casa di Parigi trovarono per molti anni un luogo e una ragione d’incontro artisti e scrittori americani, da A. Copland a S. Anderson, da E. Hemingway a F.S. Fitzgerald, rappresentanti di una generazione da lei definita ironicamente «perduta», insieme al meglio dell’avanguardia europea (Braque, Matisse, Picasso). Audace sperimentatrice, inventrice di una liberatoria asemanticità del verbale, la Stein sembra attraversare il linguaggio con la precisa scientificità di un ingegnere della parola e del suono. Il suo sperimentalismo non è semplice rigetto della tradizione, ma rivela piuttosto una attenta decostruzione attuata con gli strumenti della psicologia e della neurofisiologia. La molla latente della sua scrittura è la consapevolezza che la tecnologia modifica i meccanismi percettivi della coscienza e, dunque, anche quelli espressivi: primo, tra questi, la parola. Già in Tre esistenze (Three lives, 1908), nato dalla lettura di Trois contes di Flaubert, il dettato apparentemente naturalista si spezza, e l’attenzione al vissuto delle tre protagoniste si fa studio dei ritmi e della sintassi del loro linguaggio, parlato e mentale. Con Teneri bottoni (Tender buttons, 1914) la S. inizia la sua opera di scomposizione linguistica, che annulla anzitutto il divario tra letteratura e arti figurative e tra il codice di queste e il codice della macchina. Così la scrittura si fa cubista al pari di una figura di Picasso; la parola diventa suono ideogrammatico di sé stessa, oppure ripetizione incessante (come nella sua famosa cifra linguistica: «una rosa è una rosa è una rosa è una rosa») che destabilizza la linearità del discorso. E il «racconto» finalmente non racconta più nulla. C’era una volta gli americani (The making of Americans, 1925) non ci dice, per esempio, come si sia formata, in realtà, la nazione americana; il trattatello Come scrivere (How to write, 1931) non ci insegna affatto a costruire un romanzo. E l’operina Quattro santi in tre atti (Four saints in three acts, 1929), musicata da V. Thompson, non traccia agiografie di sorta. Eppure è questo linguaggio fortemente denotativo come quello del computer a costringerci a una percezione primaria della realtà. È questa la parola-oggetto della pop art e della pubblicità; questa la parola-suono di J. Cage. E in questo rimescolare le categorie per rinominarle si rimescolano anche i generi letterari. Se Teneri bottoni è al contempo prosa e poesia, l’Autobiografia di Alice B. Toklas (The autobiography of Alice B. Toklas, 1933) − come poi L’autobiografia di tutti (Everybody’s autobiography, 1937) − rappresenta un violento scarto rispetto alla norma per il voluto intreccio d’identità tra la scrittrice e la sua inseparabile compagna. E, ancora, la singolarissima Storia geografica dell’America (The geographical history of America, 1936) è più un monologo surreale in forma di trattato filosofico che un saggio storico. L’approccio disincantato, spesso finemente aggressivo, con cui la S. raggiunge il lettore, fa della sua scrittura il coronamento, già «postmoderno», del grande realismo della tradizione americana.
Fonte immagine: Immagine tratta dal libro "Gertrude Stein e la generazione perduta" di Valentina Grande, illustrazioni di Eva Rossetti