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Anno edizione: 2013
Anno edizione: 2017
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Autorità è anche il titolo dell’ultimo libro di Luisa Muraro, attraverso cui l’autrice lancia l’amo per un nuovo ragionamento su una parola tanto detestata, scartando fin dall’inizio ogni definizione prestabilita: “L’autorità ha dentro di sé qualcosa che non possiamo mettere fuori gioco, un quid che si oppone alla sua eliminazione, ma che stentiamo a cogliere e a custodire nella sua essenzialità”, scrive Muraro ad un certo punto. La riconsiderazione dell’autorità che viene proposta si orienta verso un senso libero del concetto che, sulla scia delle teorie di Hannah Arendt, volte a far emergere la confusione tra autorità e potere, si distingue dall’idea di autoritarismo e di gerarchia: un’autorità, cioè, che non implica nessuna subordinazione al potere, ma che al contrario viene messa in circolo da relazioni di fiducia tra persone. Le pagine del libro di Muraro danno voce proprio a questo nuovo senso. Sebbene venga percepito come un concetto da cui prendere le distanze, l’autorità, come ci mostra l’autrice, è presente nell’esperienza quotidiana di ognuna e di ognuno: di essa si fa esperienza nelle relazioni che si costruiscono tra persone, ma anche nell’arte, per esempio, o nella letteratura, e perfino nel linguaggio che usiamo quando parliamo. Nelle relazioni tra donne l’autorità ha giocato un ruolo fondamentale perché ha dato “la parola a esperienze mute che sono state escluse dall’opera della civiltà” e che hanno trovato una forma di libertà nello scambio con altre invece di lasciarsi ingabbiare in ruoli socialmente condizionati. Nel prendere parola le donne hanno ritrovato il proprio atto di resistenza contro l’oppressione del potere maschile e lo hanno fatto anche a partire da quell’autorità che circolava tra di loro. Essa nasce, quindi, nella relazione con le altre e con gli altri, con il mondo circostante; per esserci ha bisogno di un riconoscimento libero di chi è coinvolto nella relazione: la si dà e la si riceve liberamente, senza mai possederla; per questo motivo non ha un fondamento fuori di sé, ma è essa stessa fondante ed è in questo che l’autorità si distingue dal potere. Per Muraro spogliare il concetto di autorità da tutte le implicazioni negative che nel tempo si sono sedimentate nell’immaginario collettivo, non significa definire l’autorità come un concetto di per sé buono e cattivo, ma vuol dire aprire possibilità nuove all’agire nella relazione con gli altri e con le altre, ma anche riconsiderare il rapporto con alcune parti di sé che – come scrive l’autrice – comporta una difficile messa in questione di sé che spesso non si è disposti a fare. Nel termine appena utilizzato, “autrice”, si ritrova la stessa radice di autorità, eppure essa non trasmette la stessa accezione negativa, ma può essere facilmente associata alla creazione. L’origine del termine ci guida in questo senso: secondo la definizione di Benveniste, auctor deriva da augeo, che vuol dire “accrescere, aumentare”; ma esiste in realtà diverso uso di augeo, più antico, a cui Muraro fa riferimento, che si riferisce all’atto del “produrre dal proprio seno”, privilegio delle forze naturali e degli dei, ma non degli uomini: augeo è, secondo questa definizione, anche il potere, o meglio la forza, di provocare, dunque, un cambiamento nel mondo. Se l’autorità viene dunque riconosciuta come forza generativa che permette di mettere in discussione i rapporti di potere, non c’è opposizione tra questo modo di concepire l’autorità e la libertà, ma essa trova in quella il suo tratto caratterizzante: parlare di autorità come «forza simbolica» che entra in circolo nelle relazioni, e dunque nel mondo, significa riconoscere che le influenze del potere possono essere spezzate. L’autorità, in questa prospettiva, è la forza che muove le relazioni sociali e intersoggettive in modo tale da rompere quei rapporti di dominio e di soggezione che invece le società contemporanee riproducono sempre sotto nuove forme, favorendo la logica dell’individualità e della competitività, della sopraffazione dell’altro a sfavore di una collettività animata da relazioni sociali e di riconoscimento reciproco. L’autorità, infine, scrive Muraro, “aiuta a fare di una disparità un rapporto di scambio e di trasformazione”, ad abbandonare la logica di potere e cedere il passo alla pratica delle relazioni, e lo fa anche nel rapporto tra persone singole e Stato; l’autorità come pratica è, dunque, un «imparare a parlare». E allora la pensatrice propone “di combattere il circolo della forza con la forza simbolica dell’autorità, che, senza essere in sé buona o cattiva, è orientata in un senso relazionale, ammette il consenso libero e contende al potere il terreno della scommessa politica” che oggi è andata perduta nella politica stessa che spesso agisce – specialmente se si parla di quella istituzionale – come potere in cui viene meno ogni tipo di mediazione. Ecco perché l’avere potere esonera dalla «fatica della mediazione» con il mondo e con gli altri e nel rapporto con sé: è una sorta di scorciatoia per sottrarsi al confronto e al riconoscimento dell’altro e dell’altra e al dispendio di energie necessario per riuscirci. Attraverso il lavoro della mediazione, invece, l’agire politico può aprire le porte a nuove prospettive e alla possibilità di cambiamento mettendo in crisi le strutture del potere e le sue logiche. Credo che sia questa la riflessione che Muraro propone di fare a chi prende tra le mani il suo ultimo prezioso lavoro. Nessuna definizione, nessuna chiave di salvezza. L’autrice fa luce su un punto da cui partire – che non potrebbe non risentire del suo essere donna – e invita a riflettere sul senso di una parola che non lascia indifferenti, azzerando ogni preconcetto, e aprendo nuove strade, a partire dalla libertà delle relazioni in cui riconoscersi reciprocamente.
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