Una rilettura sorprendente del capolavoro di Buzzati, con cui Lucia Bellaspiga apre le porte a un’interpretazione completamente diversa del grande romanzo dello scrittore bellunese. Il deserto dei Tartari, pubblicato nel 1940, segnò la consacrazione di Dino Buzzati tra i grandi scrittori del Novecento italiano. Un libro letto e amato da generazioni di lettori, reso immortale grazie anche alle trasposizioni cinematografiche e teatrali. Oggi Lucia Bellaspiga, già autrice di un apprezzato saggio critico sul Buzzati mistico e religioso (Dio che non esisti ti prego, Àncora, 2006), ci propone una rilettura che capovolge l’interpretazione “tradizionale” del capolavoro buzzatiano, portando allo scoperto un singolare fraintendimento che ha sempre indotto a considerarlo un’opera “disperata”. Lucia Bellaspiga mette in discussione questa vulgata grazie a una raffinata interpretazione che ricostruisce la sottile ma inesorabile trama di richiami interni al testo e mostra le analogie con altre situazioni e personaggi presenti nel corpus dell’opera buzzatiana. Il romanzo dunque, tradizionalmente ritenuto “disperato”, con un finale terribile e paradossale, simbolo di attese eterne e vane che lasciano alla fine pieni di insoddisfazione e amarezza, si rivela invece la metafora di un’attesa che vana non è. Nell'ultima parola sta dunque la chiave del capolavoro di Dino Buzzati, in quel “sorrise” che, con leggerezza, chiude un racconto che pareva promettere fragori di guerra. Un finale apparentemente in calando, in tono minore, che potrebbe forse deludere il lettore. Ma al termine dell’analisi Il deserto dei Tartari si rivela un libro da leggere due volte: la prima per non capire nulla fino all’epilogo e lasciarsi sorprendere (l’effetto che Buzzati stesso cercava), la seconda per ricucire le trame e riconoscere a ritroso le tante premonizioni disseminate nel cammino che porta alla luce finale, imprevista, di quelle ultime sette lettere: “sorrise”.
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