Salvare il fuoco

Salvare il Fuoco, nell’intenzione dell’autore sceneggiatore, si configura come un libro “cinematograficamente” monumentale ma, a parte la mole spropositata, si rivela una sorta di caricatura letteraria. E’ un romanzo pieno di luoghi comuni, molti cliché “mexicaness” dove i concetti vengono stressati fino alla nausea sfiorando, a tratti, il senso del ridicolo. Arriaga, con una prosa visiva, nella sua testa da sceneggiatore, cerca di ricreare una storia “netflixiana” che ci guidi, abusando l’espediente del sesso, della violenza e del conflitto di classe, nella realtà messicana, dando vita però ad un pomposo melodramma, con pretese esistenzialistiche, più vicino, però, ad una soap opera dozzinale che ad un libro di presunta ed intellettuale denuncia sociale. La storia imbarazzante, aggravata da monologhi interni pseudo filosofici, è incentrata su una serie di personaggi tristi, noiosi e ridicoli a cui si aggiungono almeno 300 pagine del tutto inutili, ripetitive o prive di qualsiasi valore narrativo. I protagonisti rasentano l’ilarità come il pluriomicida JC, una sorta di vichingo-atzeco in versione intellettuale ma con il DNA a metà tra Rocco Siffredi e Rambo. Tra le tante aberrazioni troviamo la descrizione, dal machismo recalcitrante, di tutti i personaggi femminili, tutti rappresentati come manichini privi di personalità e complessità, che, privi di indipendenza narrativa, esistono solo grazie agli uomini L’espediente del racconto a tre voci in tempi diversi è indubbiamente interessante ma, già, a metà del libro andava rimodulato in quanto il percorso di Marina e JC si era già incrociato e affrontare le parti del narratore onnisciente a lui legate, era rileggere fatti che erano già stati raccontati. In conclusione Salvare il Fuoco è un’opera che probabilmente, a conti fatti, paga a caro prezzo lo sconfinato ego dell’autore ed una deficitaria azione di editing. Una versione “ tacos” di Disperate Housewives. SUPPLIZIO