Elsa Morante è stata una scrittrice, saggista, poetessa e traduttrice. Figlia di una maestra, Elsa Morante non frequentò la scuola elementare e imparò da sola a leggere e scrivere. Iniziò giovanissima a scrivere filastrocche, favole per bambini, poesie e racconti brevi, e a pubblicare su svariati giornaletti per ragazzi. Nel 1942 i suoi scritti per ragazzi vennero raccolti in un volume da lei stessa illustrato e pubblicati da Einaudi con il titolo Le bellissime avventure di Caterì dalla trecciolina (poi riscritto nel 1959 con il titolo Le straordinarie avventure di Caterina). Tra il 1935 e il 1940 scrive eleganti cronache di costume per riviste culturali. Da quell’esercizio giornalistico nacque il primo volume di racconti, Il gioco segreto, che uscì nel 1941. Ma l’opera che l’ha imposta all’attenzione della critica è Menzogna e sortilegio (1948, premio Viareggio), la cui vicenda (la decadenza di una famiglia gentilizia del sud, attraverso la ricostruzione allucinata che ne fa una giovane donna sempre rinchiusa nella sua stanza) precisa la vocazione favolosa e magica della Morante nei suoi termini di angosciosa separazione dalla realtà. E, in forme più turbate e assillanti, il tema della solitudine, nutrita di miti ambigui e funesti, torna nel romanzo L’isola di Arturo (1957), storia della difficile maturazione di un ragazzo che vive come segregato nel paesaggio immobile dell’isola di Procida, all’ombra del grande penitenziario.
Dopo la raccolta di versi Alibi (1958) e i racconti dello Scialle andaluso (raccolti in volume nel 1963), il libro che ha segnato una svolta nella poetica della scrittrice è Il mondo salvato dai ragazzini (1968). Articolato in testi dalla forma prevalentemente poematica (con strutture strofiche che ricordano gli esperimenti della neoavanguardia), in realtà esso accosta organismi letterari di segno diverso, dal dramma alla satira, dal «manifesto» al documento ideologico; ma l’elemento unificante di tanta disparità espressiva è una sorta di tensione vitalistica che libera i fantasmi della sofferenza claustrale nel credo quasi gioioso dell’anarchismo e del pauperismo, nella fiducia accordata ai «ragazzetti celesti», ingenui portatori dell’unica possibile felicità, quella dell’innocenza astorica e divinamente barbarica.
Tale visione utopica è anche alla base del più discusso romanzo della Morante: quel vasto affresco intitolato La storia (1974) che racconta l’odissea bellica dell’Italia e del mondo (1941-47) riflessa nell’umile microcosmo d’una famigliola romana, composta da una donna spaurita e immatura, da un ragazzotto, da un bambino e da un paio di cani. Accusato di ripristinare anacronisticamente messaggi poetico-consolatori, il romanzo esplicita invece uno «scandaloso» rifiuto della storia, opponendo problematicamente il mondo «fanciullo» e «povero» a un mondo fittizio, generatore di morte e di scempi. Un’ulteriore prova di forte intensità è il romanzo Aracœli (1982), dove l’autrice disegna il ritratto dolente di un personaggio «diverso», disperatamente proteso a ricostruire – attraverso un viaggio che non è solo della memoria – l’amata figura materna, perduta e irraggiungibile. Anche in quest’opera, ma con tratti più angosciati e sconvolti, la prosa della Morante conferma il carattere fondamentale del suo fascino sottile: un equilibrio miracoloso tra il candore magico-evocativo (una sorta di attitudine naturale al simbolo) e la sinuosa, febbrile capacità di penetrazione psicologica.