Nato il 25 febbraio 1707 dal medico Giulio G. e da Margherita Salvioni, studiò prima a Perugia, poi a Rimini: da qui, nel 1721, fuggì a Chioggia su una barca di comici (la compagnia di Florindo de’ Maccheroni), affascinato dalla vita avventurosa che conducevano i teatranti.
Nel ’23, a Pavia, si iscrisse ai corsi di giurisprudenza del collegio Ghislieri, ma presto fu espulso per aver scritto una satira, Il colosso, contro alcune ragazze della città. Si laureò in legge a Padova (1731) e cominciò la professione a Venezia, ma poco dopo un intrigo amoroso lo portò a Milano.
Nel ’32 uscì il suo primo lavoro a stampa, l’intermezzo Il gondoliere veneziano ossia gli sdegni amorosi.
Nel ’34, a Verona, conobbe il capocomico Giuseppe Imer: gli fece leggere una sua tragicommedia in versi, Belisario, e, ricevutone un giudizio positivo, lo seguì a Venezia impegnandosi a lavorare per il teatro da lui diretto, il San Samuele. Vi restò fino al ’43, ricoprendo dal ’41 anche la carica di console di Genova; nel frattempo si era sposato (1736) con la genovese Nicoletta Connio.
I nove anni di collaborazione con Imer costituirono un periodo di apprendistato e di ricerca in cui raggiunse i risultati migliori in alcuni intermezzi comici (La birba, 1734; Monsieur Petiton, 1736) e in commedie come Momolo cortesan (1734, in parte scritto e in parte a soggetto, poi rifatto, nel 1755-56, col titolo L’uomo di mondo) e La donna di garbo (1743, prima commedia interamente scritta).
Nel ’44, a causa dei debiti contratti dal fratello, abbandonò Venezia e, dopo varie soste, si fermò a Pisa, dove per tre anni, dal ’45 al ’48, esercitò l’avvocatura, ma senza trascurare il teatro. Scrisse infatti per il «Truffaldino» Antonio Sacchi Il servitore di due padroni (1745) e lo scenario Il figlio d’Arlecchino perduto e ritrovato (1746); per il «Pantalone» Cesare D’Arbes Tonin Bellagrazia (1745) e I due gemelli veneziani (1747): testi che segnano il passaggio dall’«improvviso» della commedia dell’arte allo studio dei caratteri.
«Mondo» e «teatro» furono i poli della sua poetica («i due libri sui quali ho più meditato, e di cui non mi pentirò mai di essermi servito», scriverà nella Prefazione dell’autore alla prima raccolta delle commedie, 1750).
Nel ’48 Goldoni rientrò a Venezia e firmò un contratto quadriennale con l’impresario Girolamo Medebach, la cui compagnia recitava al teatro Sant’Angelo. La prima commedia rappresentata fu La vedova scaltra (1748); seguirono La putta onorata (1748-49), La buona moglie (1749-50) e La famiglia dell’antiquario (1749-50).
Con i suoi successi Goldoni provocava le invidie dei commediografi «letterati», in particolare di P. Chiari, che lo accusava di gusti plebei e di ignoranza delle «regole». Goldoni rispose impegnandosi a comporre 16 commedie nuove per la stagione 1750-51; aprì il repertorio con Il teatro comico, che sosteneva che la nuova commedia italiana, a differenza di quella francese, dovesse realizzarsi nel disegno non di un solo carattere ma di più caratteri. Seguirono La Pamela (prima commedia goldoniana senza maschere), Il bugiardo, Le femmine puntigliose, La bottega del caffè, I pettegolezzi delle donne, La castalda ecc. Seguono Il Feudatario, la Serva amorosa (entrambe del ’52) e La Locandiera (1753), con la creazione dell’affascinante personaggio di Mirandolina.
Abbandonato il Medebach in seguito a contrasti, Goldoni passò, negli ultimi mesi del ’53, al teatro San Luca di Antonio Vendramin. Si aprì a più vivi interessi per i modelli della cultura borghese europea (Il filosofo inglese, 1753; Il medico olandese, 1756). Di gran lunga più importanti, tuttavia, le commedie corali in dialetto Le massere (1755) e Il campiello (1756). Seguirono Gli innamorati (1758) e il grande affresco di vita sociale composto da I rusteghi (1760), La casa nova (1760), la trilogia della Villeggiatura (Le smanie per la villeggiatura, Le avventure della villeggiatura, Il ritorno dalla villeggiatura, 1761), Sior Todero brontolon (1762), Le baruffe chiozzotte (1762).
Bersagliato da nuove polemiche (questa volta accese da C. Gozzi), nel ’62 Goldoni accettava l’invito, rivoltogli dalla Comédie italienne, di trasferirsi a Parigi. Dava un commosso addio al suo pubblico con Una delle ultime sere di carnovale e nell’agosto si stabiliva nella capitale francese. Lo aspettava una lunga serie di delusioni: gli furono chiesti scenari della vecchia commedia dell’arte (e ne ricavò un piccolo gioiello, Il ventaglio, 1764); dovette tentare in francese commedie costruite intorno a un solo carattere (Le bourru bienfaisant, 1771, poi trascritto in italiano col titolo Il burbero benefico). Nell’84 aveva cominciato a scrivere in francese i Mémoires, che mettono in scena il suo ultimo personaggio, sé stesso, e che costituiscono l’unico capolavoro della vecchiaia.
La vitalità del teatro goldoniano è testimoniata da una ininterrotta fortuna scenica e critica. L’opera di Goldoni è stata anche interpretata in chiave sociale o in un più diretto confronto con l’illuminismo. Di recente l’attenzione si è spostata sui meccanismi scenici, sulla intrinseca «teatralità», e sulla invenzione di un linguaggio estremamente duttile in un teatro per la prima volta «nazionale».
Fonti: Enciclopedia della Letteratura Garzanti; Enciclopedia Treccani
Sotto: la statua di Carlo Goldoni a Venezia.