"Nome d'arte di Sean Aloysius O'Feeney, regista statunitense. Di etnia irlandese, a diciott'anni, lascia la fabbrica in cui lavora e raggiunge il fratello maggiore, Francis, già impegnato come attore e regista a Hollywood, assumendo il nome di John, che subito cambia in Jack, mutando anche il cognome in Ford. Come Jack F. dirige, tra il 1916 e il 1923, una serie di film d'avventura per la Universal, in particolare molti two reels con H. Carey. Riprende il nome John per dirigere Il cavallo d'acciaio (1924), un western di grande successo che già rivela un'alta padronanza del mezzo. Tra due rulli, medi e lungometraggi sono decine i film che il giovane F. firma. Quattro anni dopo, nel 1928, realizza L'ultima gioia (insulso titolo italiano di Four Sons), con il quale vince il premio per il miglior film dell'anno. L'avvento del sonoro non intacca minimamente la sua prolificità. Gira una serie di film d'avventura, fino a che non torna a segnalarsi con La pattuglia sperduta (1934), cui fa seguito Il mondo va avanti (1934), gustosa parodia del genere gangster appena agli inizi ma già in gran voga. L'anno successivo ottiene l'Oscar per Il traditore (1935), un'opera che mette in scena la rivolta irlandese, la cui drammaticità appare accentuata dalla scelta di una cifra stilistica palesemente intrisa di tonalità espressioniste. Gira poi, tra gli altri, un notevole Maria di Scozia (1936) e un avvincente mélo di ambientazione caraibica, Uragano (1937). Nel 1939, esattamente a quindici anni di distanza dal suo western più acclamato dell'epoca del muto, con Ombre rosse realizza uno dei capolavori della storia del cinema, e si avvia a diventare il più grande regista dei film della Frontiera. Una diligenza in fuga, inseguita da un'orda di apaches, mentre scorrono visioni sfolgoranti della celeberrima Monument Valley: tratto da un breve racconto di E. Haycox, e forse vagamente ispirato a Boule de suif di Maupassant, nella memoria storica dello spettatore Ombre rosse si identifica tout court con il genere western, di cui rappresenta una svolta decisiva. Anzi, per la sua originalità, per il suo metro stilistico, per il profilo esistenziale dei personaggi, si presenta come il paradigma del western a venire. Lo sguardo di F. esplora il microcosmo che popola la diligenza, luogo topico della vicenda, senza complicità: una prostituta, un medico alcolizzato, un baro di professione, un banchiere ladro, un venditore di liquori, la moglie incinta di un ufficiale di cavalleria (che partorirà lungo la strada), uno sceriffo e un fuorilegge raccolto lungo il cammino; donne e uomini soli diversi, gettati in un ambiente estraneo e ostile, di cui vengono messi a nudo le debolezze, le paure, gli eroismi inaspettati. Mai prima di quest'opera straordinaria i caratteri degli uomini della Frontiera erano stati così nettamente delineati. Mentre con Ombre rosse guadagna un altro Oscar, F. si avvia a diventare il poeta dei grandi spazi, ma anche dei sentimenti, dei drammi, dei piccoli eroismi quotidiani. Tenace, metodico, a volte aspro, ma anche tenero, appassionato e ironico, alla fine della carriera avrà frequentato quasi tutti i generi, e la sua filmografia consisterà di oltre 150 titoli. Intanto la sua vena non accenna a esaurirsi. Gira subito Alba di gloria (1939) e La più grande avventura (1939), e immediatamente dopo un altro dei suoi maggiori film, Furore (1940), tratto dal romanzo di J. Steinbeck. Un'opera singolarmente dura nel panorama fordiano – a volte incline al conformismo – una denuncia del disastro sociale e degli scenari di miseria indotti dalla depressione seguita alla grande crisi del '29. Di un livello inferiore appaiono Viaggio senza fine (1940) e La via del tabacco (1941), mentre si rivela più ispirato Come era verde la mia valle (1941). La guerra per tre anni interrompe l'attività del regista, mobilitato come ufficiale e addetto alle riprese di materiale di propaganda e di documentazione (notevoli The Battle of Midway, 1942, e We Sail at Midnight, 1943). Ferito da una scheggia, decorato e congedato, ritorna al western nel 1946, realizzando Sfida infernale, un autentico capolavoro. Tema portante del film è la vendetta, con relativo scontro finale che scioglie l'intreccio. Ma il vero fulcro dell'opera risulta il personaggio interpretato da un magistrale H. Fonda (un Wyatt Earp pacato, tranquillo e al tempo stesso determinato): una figura quasi antifordiana, per così dire, che si trova al centro di un'opera felicemente sospesa tra epica e romanticismo. Indimenticabile la sequenza in cui Fonda/ Earp danza con il mantello della sua dama appoggiato sul braccio: è dapprima impacciato, intimidito, ma presto si lascia prendere dal ballo con grande eleganza; lo sguardo quasi adorante e insieme malizioso della donna viene in primo piano e invade lo spazio con una forza emotiva coinvolgente. Seguono altri western memorabili, in particolare Il massacro di Fort Apache (1948), I cavalieri del Nord-Ovest (1949), Rio Bravo (1950), che vanno a formare una trilogia dedicata alla cavalleria, particolarmente amata. Non amava, però, l'eroismo folle dei guerrafondai, come il famoso generale Custer, cui somiglia il colonnello testardo e tronfio, completamente privo di esperienza, che finisce massacrato insieme con i suoi uomini in Il massacro di Fort Apache. Peraltro, in questo primo titolo della trilogia F. non lesina quell'ironia, quel delizioso umorismo, quella definizione degli ambienti che sono tratti costanti del suo cinema. Qui H. Fonda e J. Wayne sono direttamente a confronto. Ma le parti sembrano invertite: Fonda è caparbio e sprezzante, mentre Wayne – solitamente calato nella parte dello yankee a tutto tondo – veste i panni problematici di un ufficiale che sembra avere rispetto per i nativi americani. Wayne riprende qualche anno dopo il suo ruolo di cavaliere senza macchia e senza paura, coriaceo, solitario, specchio delle «virtù» americane, in un altro caposaldo del western, Sentieri selvaggi, girato nel 1956, dopo incursioni di F. in altri generi, tra i quali la commedia – con gli splendidi Un uomo tranquillo (1952) e Il sole splende alto (1953) – e il dramma – con La lunga linea grigia (1955). Senza abbandonare quello che è stato considerato il genere principe del cinema americano, frequenta altre forme della narrazione filmica, come nel drammatico Le ali delle aquile (1957), nell'antirazzista L'ultimo urrà (1958), nel poliziesco 24 ore a Scotland Yard (1958), oppure nella sapida commedia I tre della Croce del Sud (1963), ma è ancora nei paesaggi – reali e mentali – dell'amata Frontiera che la sua tempra di inarrivabile artigiano della settima arte continua a esaltarsi e a innovarsi. Non a caso, dopo aver magistralmente contribuito a codificare il genere, sul finire della carriera apre la strada anche al filone «revisionista», quello filo-pellerossa (il cui prototipo è rappresentato da L'amante indiana, 1950, di D. Daves), che investe il western cosiddetto «crepuscolare» degli anni '60/'70. Infatti, dopo aver reso un altro omaggio alla cavalleria del Sud-Ovest con Soldati a cavallo (1959), realizza Cavalcarono insieme (1961), questa volta affidando le parti principali a J. Stewart e R. Widmark, l'uno un attempato sceriffo, l'altro un giovane ufficiale, che devono riportare a casa alcune donne bianche rapite anni prima dai comanches. Il fatto che alcune di queste, ormai integrate nella vita della tribù, rifiutino di tornare al mondo «civilizzato», la dice lunga sulla decisione del regista di rinunciare a J. Wayne. L'anno seguente, in L'uomo che uccise Liberty Valance (1962), ultimo capolavoro di F., Wayne ritorna, accanto a J. Stewart, con il suo profilo di uomo duro e generoso, segnato però da un rivolo di malinconia, da una vena di sofferenza solitaria, cui il tocco fordiano conferisce ancora una volta quella sorta di tristezza epica che incarna la potenza del mito e della leggenda. Anche Il grande sentiero (1964), film per la verità poco riuscito, è un tentativo di riscattare i nativi americani, questa volta gli Cheyennes. F. gira il suo ultimo film, Missione in Manciuria, nel 1966. (el)"