Andrea Nicolini insegna Filosofia morale presso l’Università di Verona dove è membro del Centro di ricerca “Tiresia” per la filosofia e la psicoanalisi. Partendo dal panorama filosofico e psicoanalitico del ‘900 francese, le sue ricerche attualmente vertono sul rapporto tra soggettività, erotismo e pulsione di morte, indagato attraverso una prospettiva interdisciplinare che muove dalla filosofia alla letteratura e al cinema. Tra le sue pubblicazioni il saggio Amore: Risvolti di Aprile, in Transfert, Amore Trauma, a cura di F. Leoni e R. Panattoni, Orthotes 2016, e la monografia Riconoscimento di sé e genesi della coscienza (2018). Forget Dimentica pure l’amore, male non farà di certo. O forse sì? Questo è il dubbio a cui ci abbandona Nymph()maniac, l’ultima opera del discusso regista danese Lars von Trier. Un dubbio, questo, che nasce immediato nello spettatore che cede il proprio sguardo alla tagline impressa sulla locandina del film, e che fedelmente lo accompagna per più di cinque ore restandogli addosso anche quando una musica assordante invade lo schermo dando spazio ai titoli di coda. Ma che cosa esattamente resta incagliato nel dubbio, che cos’è questo resto, questo stesso restare? L’etimologia della parola “resto” ci suggerisce che a restare è ciò che si sottrae a ciò che si consuma o se ne va. Che sia l’amore quello che nel film viene consumato fino allo sfinimento è fuori di dubbio, quello che però resta nel dubbio è cosa ci resti di questo stesso consumo. Una specie di resto dunque, o forse più propriamente uno scarto che si è prodotto dallo sfregamento dissennato di corpi alla ricerca di qualcosa che, sebbene sia da sempre perduto, è tuttavia rimasto impresso nello sguardo dello spettatore. È nell’orizzonte dello sguardo infatti che si è impresso per restare qualcosa che è dell’ordine della mancanza e che perciò richiama a sé il senso stesso del vedere. Occorre però guardarsi bene dal pensare questo vedere come ε?δος. Esso non ha infatti nulla a che fare con lo sguardo fenomenologico che sa poiché ha visto. Inerisce piuttosto ad un altro sguardo uno sguardo che ha visto ciò che ancora non sa, e per questo esita sulla soglia di ciò che forse non ha visto affatto.