Compositore.
La formazione e i primi lavori teatrali. Di umili origini, nel 1806 fu ammesso alle «Lezioni caritatevoli di musica» dirette da S. Mayr. Questi curò personalmente la sua istruzione in clavicembalo e composizione fino al 1815, inviandolo poi al Liceo Musicale di Bologna a perfezionarsi in contrappunto col dottissimo padre S. Mattei. D. ebbe dunque una preparazione professionale non solo organica e seria, ma di buon livello dottrinale, improntata, tramite Mayr, ai modelli classici viennesi: significativa la presenza, accanto ai tentativi teatrali giovanili, di sinfonie, cantate, quartetti ben costruiti alla Haydn e alla Mozart. Viceversa, i primi melodrammi rappresentati rivelano, oltre a quello di Mayr, l'inevitabile influsso di Rossini (Enrico di Borgogna, 1818, e Il falegname di Livonia, 1819). Un ulteriore avvicinamento al teatro rossiniano è evidente nell'opera semiseria La zingara e nella farsa La lettera anonima, presentate a Napoli nel 1822. Il successo conosciuto da D. nei teatri centro-meridionali si inquadra nel processo storico attraverso il quale l'ambiente del Nord, più colto e politicamente agguerrito, soppiantava e livellava in uno stile nazionale le vecchie scuole operistiche del Settecento. Dopo un modesto debutto alla Scala con la semiseria Chiara e Serafina (1822), doti più personali traspaiono nelle opere composte per Roma e ancora per Napoli, fra cui L'ajo nell'imbarazzo (1824), Emilia di Liverpool (1824), Gabriella di Vergy (1826), Le convenienze e inconvenienze teatrali (1827, farsa su testo del compositore stesso divenuta in seguito opera buffa in 2 atti), L'esule di Roma (1828) e, soprattutto, Il paria (1829).
La collaborazione con romani e cammarano. Dopo il fiasco di quest'ultima opera, D. ne riciclò parzialmente le musiche in una serie di melodrammi successivi, fra i quali Anna Bolena, su libretto di F. Romani (Milano 1830), dove l'istintiva vocalità del musicista giunge a sbloccare gli schemi lirici consueti con l'adesione al ritmo del romanzo d'appendice. La collaborazione con Romani dette altri frutti con Parisina (Firenze 1833), Lucrezia Borgia (Milano 1833) e, in special modo, con L'elisir d'amore (Milano 1832), dove si dispiega la miglior vena giocosa di D., fatta di fresca invenzione e di spunti popolari avvolti di melanconico lirismo. Negli anni successivi, con Maria Stuarda (1834), Marin Faliero (1835) e soprattutto con Lucia di Lammermoor, su libretto di S. Cammarano (Napoli 1835), si impone una ricca e raffinata stratificazione di voci e timbri strumentali e prende vita uno stile personale dove il canto, semplicissimo, divaga in frammenti, giocando fra ariosi, nudi recitativi e improvvisi episodi melodici. Del 1836 sono la farsa Il campanello di notte e l'opera «giocosa» Betly. Morto Bellini, non ancora affermato Verdi, D., che si era nel frattempo stabilito a Napoli, poté godere di un periodo di gloria incontrastata. Cammarano lo riforniva di libretti passionali: Belisario (1836), Pia de' Tolomei (1837), Roberto Devereux (1837), Maria di Rudenz (1838), Poliuto (1838), nei quali il sentimento amoroso è trattato nelle sottospecie tipicamente romantiche dell'amore infelice, amore e morte ecc. In tale contesto fa eccezione L'assedio di Calais (1836), su testo dello stesso Cammarano, raro esempio di opera primo-ottocentesca scevra da tematiche sentimentali e tesa a celebrare le virtù etiche di un popolo vittima di un'aggressione sopraffattoria.
Gli ultimi anni a parigi e a vienna. Nel 1838, afflitto per la morte improvvisa della moglie Virginia, contrariato per il veto censorio al Poliuto, amareggiato per la mancata nomina a direttore del locale Conservatorio, D. abbandonò Napoli per la Francia. Grazie alla benevolenza di Rossini, gli si aprirono le porte dei teatri di Parigi. Qui iniziò la composizione di Le duc d'Albe (su libretto di Scribe e Duvéyrier), lasciato incompiuto, e fece rappresentare l'opéra-comique La fille du régiment (La figlia del reggimento), Les martyrs, versione francese di Scribe del precedente Poliuto, e La favorite (La favorita), tutti del 1840. Nel 1841 scrisse l'opera comica in un atto Rita. Rientrato temporaneamente in Italia, in coda alle rappresentazioni della sua nuova opera seria Maria Padilla, alla Scala di Milano, D. poté assistere alle prove del Nabucco di Verdi (1842), ricavandone una forte impressione; da allora egli si adoperò per diffondere le opere verdiane a Vienna, dove ricopriva l'incarico di direttore musicale della stagione italiana. A Vienna rappresentò nel 1842, meritandosi grandi onori, il malinconico dramma Linda di Chamounix e nel 1843 Maria di Rohan, ancora su libretto di Cammarano. In quello stesso anno si allestirono a Parigi il capolavoro giocoso Don Pasquale e il grand-opéra Dom Sebastien, su libretto di Scribe, e al S. Carlo di Napoli la tragedia lirica Caterina Cornaro (1844). Sempre a Parigi, alla fine del 1845, D., che aveva in precedenza contratto la sifilide, fu colpito da una paralisi cerebrale indotta dal terzo e conclusivo stadio della malattia. Dopo un periodo d'internamento forzato a Ivry, solo la minaccia di suscitare un «casus belli» diplomatico (egli era suddito austroungarico e maestro di cappella dell'imperatore Ferdinando I d'Asburgo) permise ai parenti e agli amici italiani di trasferirlo a Bergamo, dove morì senza più recuperare la ragione.
La rivalutazione moderna. D. fu autore di più di settanta opere fra serie, semiserie, buffe, farse, grand-opéras e opéra-comiques. A queste si aggiungono 28 cantate con accompagnamento d'orchestra o di pianoforte, musica vocale religiosa (fra cui una Messa da Requiem in re minore, scritta in memoria di Bellini nel 1835), pezzi sinfonici, composizioni strumentali da camera (fra le quali 19 quartetti per archi) e molte liriche: oltre 170 sparse, per una o più voci e pianoforte, e oltre 80 pubblicate in raccolte. Tale prolificità, determinata dall'urgenza del guadagno – in un'epoca che non conosceva diritti d'autore – e resa possibile dal solido mestiere compositivo appreso da Mayr (la cosiddetta «poetica della fretta», quasi che la fantasia creatrice fosse stimolata e acuita, anziché depressa, dall'incalzare delle scadenze), fu per lungo tempo derisa come sintomo di trasandatezza e ripetitività, soprattutto da parte dei critici francesi (Berlioz), preoccupati dell'invadenza italiana nel proprio territorio operistico. Anche in patria, nella migliore delle ipotesi, il compositore venne considerato alla stregua di un brillante e onesto artigiano post-settecentesco di levatura inferiore a Bellini, cui era spettato il compito di consegnare l'opera seria rossiniana nelle mani del giovane Verdi, avendovi introdotto alcune varianti «romantiche» e avendo azzeccato due o tre lavori di indubbia riuscita e popolarità (Elisir, Lucia, Don Pasquale). Negli ultimi trent'anni, però, tale prospettiva è sensibilmente mutata, soprattutto per merito della musicologia anglosassone. Oggi si pone maggiormente l'accento sugli aspetti innovativi del compositore, sia dal punto di vista del formulario operistico sia da quello della drammaturgia. Come avvio delle sue partiture egli utilizzò spesso un «Preludio», formalmente libero e direttamente collegato all'Introduzione del primo atto, al posto della più tradizionale «Sinfonia» a sipario chiuso: un indubbio segnale della crescente importanza dei musicisti nell'economia complessiva del melodramma. Inoltre, D. fu uno dei primi a eludere, di tanto in tanto, la consueta prassi rossiniana dei finali d'atto con concertato lento, preferendo concludere con più semplici insiemi (si veda L'esule di Roma, che precede di quattro anni Norma di Bellini). Per quanto riguarda i registri vocali, egli si deve ritenere l'inventore del baritono «romantico», quale contraltare del tenore e avversario di non eccessiva differenza anagrafica (Il furioso all'isola di San Domingo, Roma 1832, e Torquato Tasso, ivi 1833), innovazione che spianò la strada al giovane Verdi. Altrettanto «preverdiane» sono da considerarsi la tendenza a concentrare il dramma in una sequela di atti di crescente brevità (per es., Maria di Rohan) e la dissociazione fra piano scenico e piano musicale, essendo stato concepito quest'ultimo non più come una semplice estensione sonora «hic et nunc» della rappresentazione, ma come qualcosa di indipendente, in grado di rievocare il passato e, soprattutto, di anticipare il futuro: si pensi ai preannunci funerei di Maria Padilla, poi vanificati dall'improbabile «lieto fine» introdotto dallo stesso D. come male minore, in luogo del grottesco finale imposto dalla censura milanese (si veda anche, alla voce f opera, la scheda Censura e lieto fine).