Il regno di vetro
di Lawrence Osborne
Sarah è in fuga dagli Stati Uniti. Con sé ha un malloppo di 200.000 dollari che scottano. Sbarcata a Bangkok, si sistema in un fantomatico complesso residenziale, il Kingdom, quattro torri di ventuno piani, ciascuna collegata alle altre per mezzo di passaggi chiusi da porte di vetro che solo la chiave di sicurezza in possesso di ogni residente può aprire. Ma dietro un vetro, specchio delle nostre paranoie, si è sempre sotto stretta sorveglianza – e il rifugio può rivelarsi una prigione. Fuori tira aria di sommossa: anche il regime che domina il paese è di vetro. In quello spazio chiuso, di un lusso e un edonismo avvelenati, la protagonista farà conoscenza con tre altre donne: una cilena che prepara manicaretti, un’inglese con uno strano marito e una domestica più strana ancora, e una specie di prostituta eurasiatica d’alto bordo. Siamo tra i «farang», gli stranieri viziati e viziosi, malvisti dalla popolazione locale e da sempre sottoposti all’impietosa indagine radiologica dell’autore, che con questi elementi miscela un cocktail torbido e insinuante. Si procede così, con tutti i sensi tesi e un po’ alterati, nei meandri infidi e pieni di pericoli del «Regno», fino alle ultime pagine dove Osborne, erede accreditato di Graham Greene, sfodera a sorpresa un finale degno di Ballard. E il lettore, che credeva di avere a che fare col più classico dei thriller esotici, si trova immerso con sgomento in una imprevedibile ghost-story. )
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