Utilizzando la crème dei tecnici del suono e l’ineguagliabile qualità della produzione affidata alla Quality Record Pressings, la nuova serie Acoustic Sounds è masterizzata a partire dai nastri originali, stampata su vinile da 180 grammi e confezionata in copertine gatefold (“a libro”) ad alta qualità, curate dalla Stoughton Printing Co., dove – come si usava nei dischi dell’epoca – il foglio di carta stampato è applicato sul cartone (e quindi non è quest’ultimo ad essere inchiostrato direttamente). Il tutto sotto la supervisione di Chad Kassem, CEO di Acoustic Sounds, la società più affermata nel campo delle pubblicazioni per audiofili. Le pubblicazioni sono selezionate dallo straordinario catalogo Verve/UMe e, per iniziare, la serie si concentra su alcuni degli album di maggiore successo degli anni ’50/’60. Ecco quindi un album-manifesto della corrente “mainstream” che ha trovato culla e terreno fertile nell’etichetta Verve.
Negli anni ’50 – più o meno in contemporanea con la nascita del vinile “microsolco”, che garantiva ai brani una durata ben superiore ai tre minuti e mezzo del disco a 78 giri – nasceva grazie all’iniziativa del geniale fondatore delle etichette Clef, Norgran e Verve (le prime due confluirono nell’ultima) Norman Granz una serie di registrazioni in cui confluivano musicisti di varia estrazione. Erano delle jam session più o meno estemporanee, alle quali partecipavano giovani e meno giovani: oggi può sembrare scontato che un bopper come Charlie Parker incidesse con il suo collega ellingtoniano Johnny Hodges, ma in quell’epoca di diatribe tra modernisti e tradizionalisti non lo era affatto… Questi esperimenti (riuscitissimi) vennero in seguito indicati come la culla del genere mainstream: un comune terreno di incontro che trovò proprio nell’etichetta Verve il terreno più fertile. Questo album del 1957 può esserne un paradigma: all’epoca Ben Webster, assoluto maestro del sax tenore, già colonna di tre orchestre che fecero la storia del jazz negli anni precedenti (quella di Fletcher Henderson, quella di Count Basie e quella – indimenticabile – di Duke Ellington degli anni d’oro 1940-1942), proprio con la regia e sotto gli auspici di Norman Granz si incontrava con il quartetto del formidabile pianista Oscar Peterson (all’epoca 32enne), forte dell’inseparabile Ray Brown al contrabbasso e di un sanguigno Herb Ellis alla chitarra (vero erede di Charlie Christian), nonché di Stan Levey alla batteria. Ne uscì un album perfetto, all’insegna di un relax tanto congeniale all’indole di Webster quanto in grado di mettere in mostra la musicalità di Peterson, troppo spesso indicato come pirotecnico virtuoso emulo del colossale Art Tatum (etichetta che in realtà gli stava stretta): quindi un Album (sì, con la maiuscola) di ballads e brani a tempo medio indimenticabile, prezioso, imperdibile.
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