Tutti oggi celebrano la vita online. Fruitori disinteressati, entusiasti sostenitori, ma anche critici e alternativi, non hanno dubbi: la tecno-cultura, di cui Internet e i Social Media costituiscono il suggello più moderno, è una manna. Eppure, a trent’anni dall’invenzione del Web, è sempre più chiaro che la promessa di un mondo trasformato in un villaggio globale di persone libere e sapienti è stata solo l’ennesima esca. Quel che la Rete ha portato nella nostra vita non ha nulla a che fare con ciò che gli illusionisti della Silicon Valley (e i loro missionari disseminati ovunque) hanno promesso e continuano a spacciare: mentre si regge sulla sistematica distruzione del Pianeta e sullo sfruttamento schiavistico di popolazioni intere, la società digitale sta compromettendo gli ultimi residui di socialità e di autonomia individuale, rendendo ogni soggetto un utente indifferenziato sempre più isolato, omologato, dipendente dal tecno-mondo. Allo stesso tempo, rinchiude tutti in un claustrofobico universo di sintesi totalmente programmato, mercificato, iper-sorvegliato. Enrico Manicardi prosegue qui la sua analisi critica della modernità. La società dell’interconnessione non è una “rivoluzione”: è solo l’ultima fase di quella millenaria guerra alla Natura che abbiamo chiamato civiltà. In un mondo che corre a una velocità sempre più forsennata, tutto sta diventando obbligato, prestabilito, già pronto solo per essere accettato con la spunta o la crocetta. Come lo Charlot di Tempi moderni era costretto a tenere il passo della catena di montaggio e a vivere senza interrompere il flusso della produzione, anche noi, odierni navigatori confinati nei reclusori dell’elettrosfera, siamo soggetti agli stessi obblighi, e ci adattiamo ai ritmi di un tecno-universo surrogato che non concede più nemmeno i tempi per mangiare, conversare, riposare. Stimolati all’iperattività dai nostri dispositivi digitali, ci doniamo più o meno consapevolmente agli interessi dell’industria e dei governi, lavorando gratuitamente per loro affinché il Sistema possa continuare a sovrastarci, a venderci tutto, a controllarci in ogni nostro minimo movimento, determinando direttamente i nostri bisogni, le nostre amicizie, le nostre modalità di relazione. In perfetta continuità con quell’ordine che da diecimila anni ci tiene alla catena del Sistema, Internet è uno strumento utile a esaurire ogni nostra residua capacità vitale, ogni nostra libertà. I sentimenti di gioia, di unione, di generosità che hanno sempre animato le persone non nascono dalla tecnologia, e vi si sono anzi perduti man mano nel tempo. Riconoscerlo è fondamentale, e agire per riabilitare la nostra naturale selvatichezza contro ogni aggressione tecnoculturale vuol dire operare per riattivare quei processi vitali che rimuovono ogni paura, ogni incertezza, ogni ostacolo alla prospettiva di trasformare radicalmente l’esistente. Possiamo renderci conto del fatto che la civiltà è un disastro, e che spinge tutti verso il disastro. Oppure possiamo lasciarci trascinare dai fluttui ammalianti della sua morsa digitale e continuare a far finta di niente credendo di vivere nel “migliore dei mondi possibili”. In fondo, è proprio questo lo scopo di ogni religione: offrirsi seducente alle ansie di tutti noi, così da palliare i sintomi immediati della nostra sofferenza esistenziale preservandone le cause e garantendo la perpetuazione di quel mondo che ci sta annientando. Come la religione, la Rete illude e consola; come la religione, la Rete avvinghia nei suoi rituali dalle pretese magiche; come la religione, la Rete offre paradisi artificiali nei quali evadere. Insomma: come la religione, la Rete è l’oppio dei popoli!
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