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Il filo conduttore di questo romanzo è il colpo di fulmine fra i due protagonisti, ma tutto ciò che dà corpo alla storia, a mio avviso, è l'efficace narrazione di tutte le altre storie d'amore narrate: quella degli abitanti di Taras per la propria cultura, quella tra figli, fratelli e genitori, quella dei soldati romani verso l'Impero, tutte ben intrecciate e viste attraverso gli occhi di un viaggiatore, Atmosfera perfetta e ottima narrazione!
KALIMERA (Taranto, 272 a.C.) Recensione di Michele Mattei Scrisse Omero nei suoi magnifici inni che l’amore, nella splendida immagine di Afrodite, regina della natura, è la forza più potente dell’universo. Quella dea, vestita di fascino e sensualità, rappresenta la continuità della vita, la rigenerazione, il ciclo dell’esistenza e la necessaria bellezza affinché tutto questo si compia. E se la bellezza è protagonista dell’antichità, beh, benvenuti nella sua terra, perché l’invisibile leit motiv del nostro essere al mondo prende le sembianze di una meravigliosa giovane greca, anzi, magnogreca. Si, perché la frizzante, viva storia narrata dall’autrice, brilla sullo sfondo del cielo tarantino. Taranto, o Taras, come veniva chiamata prima della conquista romana, colonia spartana, potentissima città del mondo antico, orgoglio di quella civiltà. Taranto figlia dei guerrieri per antonomasia, di una madrepatria dura e rigida, ma che non rinuncia alla bellezza, una bellezza che prende le sembianze magiche dei templi, di quei due mari che narrano storie di dei e promesse tanto nelle loro onde quanto nelle loro quieti. Una bellezza che, nella nostra storia, si incarna, plasma, nella figura femminile della giovane Kalimera. E Kalimera è bella come il vento che le scompiglia i capelli, come il suo disordine, come la sua inconsapevolezza d’adolescente, spirito ribelle che rifiuta di inquadrarsi, sottomettersi alle logiche di potere di un mondo che non proprio non sente suo. Kalimera sognatrice con i suoi sedici anni, viva nella sua curiosità, al confine tra ingenuità e sagacia, con un carisma capace di trascinare chiunque con lei. Ragazzina che diventa donna, spettatrice teneramente turbata dal suo corpo che cambia, che conosce prima il desiderio di avidi occhi su di lei e poi, come non poteva essere altrimenti per questa dionisiaca anima, l’esplosione della passione. Kalimera è passione, vita. Ed è proprio il dio dell’istinto, dell’ebrezza a guidare e disegnare la sua strada, facendola inciampare, come sa fare solo il fato travestito da caso, in quello sguardo proibito, quello di Tumulo, togliendo il suo velo di bambina e scoprendola ai suoi stessi occhi, meravigliosamente donna. Quello sguardo però, secondo la volontà del mondo, appartiene al nemico. Ed ecco che le leggi umane, la guerra, la tremenda razionalità della conquista, accendono il casus belli, l’eterna lotta tra le istanze razionali e quelle istintive. Si, perché Tumulo, il generale romano, di quella Roma spietata, fredda, non riesce a liberarsi di quegli occhi intravisti dalle mura. E’ in quel momento che la forma si fa sostanza e l’animo materia: la breccia delle mura, attraverso le quali la luce dell’iride di Kalimera colpisce fatalmente il generale, diventa meravigliosa metafora della breccia in un anima che conosceva solo sete di conquista e di terre. Eccolo allora, Tumulo, da freddo calcolatore, comandante di legioni a cercare in ogni modo possibile di incrociare di nuovo quello sguardo, nuovo ed inaspettato totalizzante motivo della sua vita, non sapendo che, all’interno della cinta muraria, Kalimera stava facendo lo stesso. E la cornice della città, tra anziani pescatori complici di quell’amore, templi che ospitano fuochi e sacerdotesse sacre, sapori marini, colori e profumi di un universo sorprendente, diventa coprotagonista, dei due giovani. Che la passione bruci allora e che conduca, come ha saputo fare magistralmente l’autrice, in una storia che si può leggere tutta d’un fiato. Volendo osare, si potrebbe dire che questa capacità di tenere viva la fiamma della curiosità, presente in ogni singola riga del romanzo, vada oltre. L’autrice è riuscita a rendere questa elegante sintonia con quel mondo vivendo dentro di se non solo le storie, i personaggi, ma quei luoghi, la sua Taranto, tra quelle che sono oggi rovine nascoste e che hanno ospitato vite ancora riecheggianti nelle valli del nostro tempo. Tempi e luoghi, i nostri, inscindibilmente legati a quei colori antichi, a quelle forme che hanno dato vita al passato. Sembra che un filo, tanto sottile quanto impossibile da spezzare, leghi inscindibilmente i tempi che attraversiamo con quelli dei nostri antenati. Alla fine della lettura le luci della strada per Tarentum si spengono e rimane quella splendida immagine del viandante narratore. Quasi udendo i suoi passi stanchi, mentre a malincuore si volta l’ultima pagina, viene naturale porsi una domanda: nel romanzo, come nella storia dell’uomo, ci sono vincitori e vinti? O invece, nel turbine dionisiaco, nella forza di quell’antica dea della vita, nell’emozione, nel pulsare di passione, come hanno fatto Kalimera e Tumulo, non ci sia già l’immagine più limpida del trionfo dell’essenza vitale di cui è capace solo un’umanità spesso tanto invidiata persino sull’Olimpo. Michele Mattei
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