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Anno edizione: 2014
Anno edizione: 1994
Anno edizione: 2014
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Assieme a "Nevermind" dei Nirvana, "Superunknown" dei Soundgarden è il disco più importante del periodo grunge made in Seattle, negli anni '90. La band riesce nel difficile compito di confermare quanto di buono era stato fatto negli album precedenti, scegliendo il metodo più difficile: un disco lungo, con ben sedici tracce. La cosa più soprendente non solo è costituita dalla mancanza di passi falsi nel susseguirsi dei brani, ma la qualità dei singoli in esso contenuti ha segnato letteralemente un'epoca. "Black Hole Sun", "Spoonman", "Feels On Black Days" sono perle di rara bellezza, immortalate nella memoria collettiva da video musicali molto originali e di grande impatto. In definitiva un album che non può mancare nella collezione di tutti gli amanti della buona musica.
All’epoca della sua prima uscita nel 1994, “Superunknown” rappresentò in molti sensi una sorta di spartiacque nell’ambito del rock degli anni Novanta: se da un lato celebrava la fine dell’epoca grunge (in concomitanza con la tragica scomparsa di una figura rappresentativa come Kurt Cobain), dall’altro fotografava i Soundgarden in un periodo di trasformazione da band di culto sotterraneo a idoli del nuovo mainstream musicale del decennio. All’epoca quest’opera monumentale e controversa suscitò dubbi e scetticismo nei fans della prima ora, divisa com’era tra l’intransigente durezza di brani simbolo come “Let Me Drown” o “4th of July” e la psichedelia da classifica di “Fell On Black Days” e “Black Hole Sun” (ad oggi la loro canzone più conosciuta a livello planetario). A vent’anni di distanza si può affermare che il tempo ha reso giustizia a questo disco, giustamente considerato come uno dei capolavori del gruppo e testimonianza di un irripetibile stato di grazia sia a livello musicale che compositivo: le variazioni di atmosfera tra i brani più granitici e quelli maggiormente accessibili simboleggiano la conquista di una nuova versatilità musicale più che una resa alle leggi del mercato discografico, ed anche gli episodi meno convincenti (il breve mantra indiano di “Half” e la divagazione elettroacustica di “Head Down”) appaiono comunque necessari nell’economia complessiva dell’opera. “Superunknown” rimane un disco fertile e immaginifico, sospeso tra marziali grooves di parossismo metallico e traversate desertiche di fascinosa introspezione psichedelica. A suo modo, una pietra miliare dell’universo sonoro degli anni Novanta.
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